L’inizio e la fine. Sono solo due gli incontri che don Vincent Nagle, 58 anni, americano, ha avuto con Fabiano, il dj morto lunedì per suicidio assistito nella clinica svizzera Dignitas. Una prima volta a primavera, quando Fabo ha iniziato a manifestare il desiderio di mollare tutto e farla finita, l’ultima venerdì scorso, il giorno prima della sua partenza per la clinica dei suicidi.
Due incontri, dunque, non una frequentazione costante (Fabo aveva rifiutato anche l’assistenza dello psicologo, accogliendo solo fisioterapisti e riabilitatori che potessero restituirgli il corpo, la vita di prima, le sue funzioni ora spente), eppure in due momenti chiave.
Don Vincent, come è entrato in contatto con lui?
Rientrato dalla Palestina, dove ero parroco per la comunità cattolica di lingua araba, sono diventato cappellano della Fondazione Maddalena Grassi per l’assistenza a domicilio ai disabili gravissimi, tra i quali Fabo. In tutto abbiamo un migliaio di pazienti con situazioni come la sua o molto simili, alcuni anche più gravi.
Il suo è un osservatorio “privilegiato” sulla immensa e terribile questione di tante vite “diminuite”, che alcuni non accettano e vivono con umiliazione, altri sentono ancora ricche e piene. Un mistero che interroga tutti noi e mette in gioco la capacità della nostra società di dare aiuto concreto ai più fragili.
Nelle case dei pazienti e in sei nostre strutture tocco con mano giorno per giorno mille realtà differenti e le patologie più diverse, e in questo viaggio incontro anche i tanti operatori che lavorano a queste situazioni, dando cuore e competenza. Mi reco solo da chi richiede la mia presenza, oppure dove siano il medico o un operatore a indicarmi la necessità di andare di persona a incontrare il paziente stesso o la sua famiglia, che regge un grande peso.
E Fabo? Com’è avvenuto il primo incontro?
Sono stato chiamato da un operatore che lo assisteva molto da vicino e che era sconvolto: Fabo iniziava a manifestare pensieri di morte, dopo che per mesi aveva invece sperato e partecipato con volontà alla riabilitazione. Mi disse che la madre dell’uomo mi avrebbe incontrato. Era una donna tanto sofferente e arrabbiata con Dio, una madre che si trovava a difendere la scelta del figlio, perché sentiva che non c’erano più opzioni. Quel giorno ha parlato solo lei, ne aveva bisogno, io ho ascoltato. Quando poi il figlio l’ha chiamata in camera, mi ha invitato a seguirla e lì io e Fabo ci siamo presentati. Abbiamo iniziato a conversare, ognuno sulle proprie esperienze: io gli raccontai le mie, lui la musica e la discoteca. Siamo così arrivati a sfiorare il tema della vita e della morte, e se abbiamo nominato Dio è perché lo ha fatto lui. Non c’è stato più tempo, però, per approfondire un discorso in quel momento inattingibile: mi ha salutato con un «per favore, torna», ma poi non è stato più possibile fino all’ultimo giorno. Era un uomo generoso.
Difficile per una madre immaginare uno strazio più grande di sentirsi “costretta” ad avallare il suicidio di un figlio.
Con lei sono rimasto in costante contatto, anche con i messaggini. Certamente era una donna molto addolorata e immagino come starà in queste ore, in casa erano ormai sempre lei e lui, lui e lei da soli. Leggo che Fabo era contento di andare a morire in Svizzera. Ma come si fa a pensare questo? Fabo era disperato. Al nostro operatore ha spiegato «no che non sono contento, io voglio vivere, ma questo non è vivere». Ho a che fare con centinaia di persone come lui e vedo ogni giorno l’evoluzione dei pensieri sui volti e negli occhi. Nessun automatismo: c’è chi imprevedibilmente trova risorse per amare anche la sua nuova vita e addirittura amarla più di prima, e chi invece non ce la fa, nel senso che subentra la stanchezza, anche se non chiede di morire, e allora è una vita amareggiata. Ma c’è un passo che prima o poi tutti fanno: le domande all’ignoto. Dove mi stai portando? Cosa mi sta succe- dendo? È la finestra che si apre nella gabbia e da cui entra qualcosa, non necessariamente la fede, magari nuovi legami, sentimenti, aspettative… Nessuno però può costruire questo passo, che nasce dalla domanda fondamentale: ‘Cosa mi sta dando questa vita misteriosa, che non conosco?’.
A rivolgersi a lei sono più i pazienti che hanno il dono della fede?
Non c’è necessariamente fede, ci sono domande. E non necessariamente su Dio, ma su come reggere una vita che appare inutile, troppo dura, impossibile. Chiedono di me quando il dramma umano si rivela ingestibile: ‘Non ce la faccio più, mi aiuti ad accettare questa vita’. Io non posso rispondere. Ma ho desiderio di sondare con loro le risposte a queste domande e spesso con il tempo sulle loro facce vedo cambiamenti che mi stupiscono. Vedo che è già all’opera la risposta. Sono loro che aiutano me. Altrimenti sarebbe durissima andare a colloquio con occhi che mi guardano carichi di speranza che io porti un miracolo che non possiedo, oppure pieni di rancore verso Dio e la sorte che li ha colpiti.
Può fare ancora qualcosa per Fabo, ora?
Sua madre mi ha chiesto di celebrare una messa per lui dopo la morte, e che avvenga nella chiesa in cui è stato battezzato. E Fabo ha acconsentito.
Fonte www.avvenire.it/Lucia Bellaspiga