Categorie: Humanitas et Web

Preti di periferia: Don Antonio e il Rione Sanità

Negli incontri con il clero e i religiosi, Francesco sembra a volte severo e particolarmente esigente. Il pastore deve avere l’odore delle pecore – ha detto con un’espressione divenuta giustamente famosa. Ma ha anche richiamato il rischio della comodità, delle auto ultimo modello. Alle suore ha detto di non guardare le telenovelas. Non significa che ciò accada. È un’esortazione preventiva. Infatti l’incontro con preti totalmente dediti a predicare Gesù e a vivere l’amore per il prossimo è esperienza comune e diffusa. In queste settimane racconteremo qualcuno di loro. Solo qualcuno, non necessariamente i “migliori”. Nessuno perciò si senta trascurato. Tutti sono riassunti ed esemplificati dalle (poche) storie che pubblicheremo. Basilica del Buon Consiglio, a Capodimonte, una radiosa mattina di luglio. Sotto alla chiesa c’è un portone di ferro. Un tramestio di chiavi, e dal sole pieno entri nella penombra di un vasto spazio sotterraneo. Le catacombe di San Gennaro, II secolo dopo Cristo, di proprietà del Vaticano: un labirinto di migliaia di tombe scavate nel tufo. Su quella che ospitò le spoglie di San Gennaro prima che da qui venissero trafugate sta ancora un bastone pastorale. In quegli anni divennero meta di pellegrinaggio. Poi nell’VIII secolo, al tempo dell’eresia iconoclasta, il vescovo Paolo II si rifugiò qui. Un largo battistero di pietra testimonia che, sottoterra, si battezzava. Viene istintivo, nell’ombra, di parlare sottovoce, avvertendo la sacralità di queste grotte. A tratti il rombo degli aerei sopra Capodichino riempie i corridoi bui. Cammini, e d’improvviso sbuchi di nuovo nell’oro di luglio, nel cortile dell’ospedale San Gennaro, un tempo ostello benedettino. Questo passaggio sotterraneo da Capodimonte a Rione Sanità, cuore popolare di Napoli, è stato riaperto al pubblico da pochi anni. Nel 2001, quando don Antonio Loffredo diventò parroco della Basilica di Santa Maria della Sanità, le catacombe erano quasi inutilizzate. Intuendo in quella bellezza sepolta l’occasione per dare lavoro a dei ragazzi del Rione, dove la disoccupazione giovanile è un dramma, don Antonio ha spinto la nascita di una cooperativa sociale. La Fondazione “Con il Sud” ha finanziato il progetto, cui ora cinquanta ragazzi lavorano. La ragazza che ci fa da guida per le catacombe dice di don Antonio: «È un vulcano. Un grande sognatore, e però tanto concreto da sapere realizzare i suoi sogni. Ed è un sacerdote. Ci ha insegnato la massima di San Gaetano da Thiene, il “suo” santo, che diceva: “Sfidate la Provvidenza, lei vi schiaffeggerà con l’abbondanza”». La Provvidenza? Per molti è quella bella cosa di cui parla Manzoni: nella realtà, difficile a vedersi. La Provvidenza al Rione Sanità poi, fino a poco tempo fa isola chiusa di povertà nel centro di Napoli, dove i tassisti si rifiutavano perfino di entrare? Eppure, qualcosa sta accadendo, fra questi vicoli. Qualcosa lentamente inizia a cambiare, in una rete diffusa di parrocchie, benefattori, suore, opere, e anche grazie a don Antonio, 56 anni, nato poco distante da qua. Uno che da bambino, dall’alto del ponte che spacca in due la Sanità, guardava giù in queste stradine. Uno che, figlio di un imprenditore, non credente, pessimo studente, non pareva destinato a fare il prete. E poi, chiedi al sacerdote che ti sta davanti, faccia simpatica, cordialità mediterranea, che è successo? «E poi – risponde lui – successe che a scuola avevo un professore di fisica diverso dagli altri. Il solo che si preoccupasse di noi ragazzi, che facesse ripetizioni gratis per quelli più indietro. Quell’uomo mi meravigliava. Un giorno gli chiesi come mai era così diverso. Lui mi rispose che era cristiano. E io: e che vuol dire? Il professore cominciò a spiegarmi, io, incuriosito, presi a leggere il Vangelo. Poi venni a sapere che era stato un prete, e se ne era andato nel ’68. E non so cosa esattamente scattò: come il desiderio di andare io, a riprendere il posto che lui aveva lasciato vuoto». Al seminario, l’ex pessimo studente vince una borsa di studio in filosofia a Tubinga. Il cardinale Ursi gli si affeziona. Ordinato nell’85: «La prima Messa l’ho detta all’alba, da solo, qui a Napoli, sulla tomba di San Gaetano». Quello che dice che se provochi la Provvidenza, quella ti schiaffeggia con l’abbondanza.

Per molti anni Loffredo è prete nella periferia Est di Napoli, nel 2001 sbarca alla Sanità. Non un posto facile: criminalità, disoccupazione, degrado. «I primi tempi mi sono guardato semplicemente intorno. Ho vestito l’abito, e ho cominciato a girare il quartiere. La camorra? Vede, io tengo a dire che non sono qui “contro” nessuno. Io sono “per”, per i ragazzi, per questa gente. Anche i figli dei camorristi sono i miei bambini. Voglio che la mia parrocchia sia una fontana d’acqua viva, in cui chiunque può entrare e bere. Non domando chi sei, che cosa fai; non sarei cristiano». Si accende una sigaretta. «L’ultimo che hanno ammazzato qui – continua con una sfumatura di dolore –, a gennaio, era un mio ragazzo, aveva un bambino, stava per sposarsi. Vede, al Nord mi pare che voi pensiate che il male e il bene sono due cose nettamente divise. Al Rione Sanità, no: male e bene sono insieme, strettamente intrecciati», e fa il gesto di due mani con le dite annodate. «E poi – continua – al Nord voi fate quello che è ragionevole; qui alla Sanità invece la gente non bada alla ragionevolezza, ma fa ciò che le piace, ciò che la affascina. Il che è un limite, ma anche una possibilità. Perché nel momento in cui diventano tuoi amici, per te fanno qualsiasi cosa (il cristianesimo, diceva il cardinale Ursi, «passa sui ponti dell’amicizia»). E quanto questa mia gente è sensibile alla bellezza. Alla musica, per esempio: abbiamo formato un’orchestra con maestri volontari, con quaranta ragazzini che non sapevano leggere una nota. Hanno suonato anche davanti al Papa e a Napolitano. Qualcuno ha scoperto di aver talento, farà l’Accademia. E sono figli di poveri, o anche di gente che è passata dalla prigione».

La bellezza – quella che secondo Dostoevskij ci salverà – come strumento di riscatto. La sera, per strada, ti frastorna il correre a rotta di collo dei ragazzi in moto, senza casco, anche dodicenni, anche in tre su uno scooter. Però, alla chiesa di San Severo, incroci i ragazzini di don Antonio con il violino a tracolla, che vanno a provare. Nell’imminenza della festa del quartiere si prova anche nel teatro, e nella scuola di danza della parrocchia. È come se un fuoco fosse stato acceso tra i vicoli della Sanità, e avesse cominciato a ardere nelle sue chiese. Qui accanto un altro prete, don Vitiello, ogni notte ospita 120 senzatetto. Nessuno protesta. I poveri hanno pietà degli ultimi. Dice don Antonio: «C’è una cosa che stiamo sperimentando qui, e che mi preme dire. Ovunque in Italia la Chiesa ha un immenso patrimonio di bellezza, di arte, di immobili. Spesso sono vuoti, o in abbandono. Non dobbiamo venderli, dobbiamo creare progetti validi che attirino finanziatori, e farli gestire da cooperative sociali (la «strada maestra», secondo papa Leone XIII) che diano lavoro ai nostri ragazzi. Dobbiamo capire che la bellezza è generativa. Ma c’è troppa paura del nuovo, troppa diffidenza. Dobbiamo osare, invece. La carità ci interpella: lo dice il Papa. Vorrei vedere la mia Chiesa più profetica, capace di iniziare un nuovo umanesimo». Qualcuno potrebbe obiettare che i preti si occupano di cura d’anime… «Guardi, io non ho mai visto un’anima camminare. L’uomo è tutto intero, e ci è stato detto che risorgeremo nella carne. Mi pare quasi un’eresia, questa del pensare solo all’anima». Case per ragazze madri, assistenza agi immigrati, doposcuola per bambini, la canonica trasformata in bed and breakfast e gestita da un’altra coop di ragazzi, un nuovo progetto simile esportato ai Quartieri Spagnoli, le catacombe e molto altro. Come si finanziano tanti progetti? «Ho molti amici a Napoli, che a certe idee credono, e ci investono». E se un giorno la Provvidenza la tradisse, se non avesse i soldi necessari? Ride ancora: «Guardi, io personalmente di soldi non ne ho mai, questo è un problema che proprio non tengo… Comunque, ho imparato che, buttandosi, uno più uno fa tre». In canonica arriva un ragazzo sui vent’anni con in braccio una bella bambina: è sua figlia. Racconta don Antonio: «Questo, da ragazzino, è finito in carcere minorile per rapina, poi mi è stato affidato dal Tribunale, quando è arrivato mi ha abbracciato e m’ha detto: “Non farmi tornare più in carcere”. Gli è nata questa bimba, ora lavora con la nostra coop, vive con la sua ragazza, sta rinascendo…». E a Messa, stasera, ci sono la mamma e la fidanzata di quell’altro, quello ucciso a gennaio dalla camorra. Alla Sanità, è vero, con il calar della sera puoi non sentirti sicuro. Però, noti, quanti bambini: tantissimi bambini. Qui, dice don Antonio, «se a 16 anni una ragazza resta incinta, quasi sempre tiene il bambino: c’è povertà, ma anche un favore naturale per la vita». In questo humus povero e ricco assieme, don Loffredo, prete grazie a un prete spretato, è un irrefrenabile ciclone. (La sua forza, dice, sono gli occhi della sua gente; la sua forza è l’amicizia di Cristo, e le due cose paiono una sola). Ma mesi fa Antonio è andato dal Papa con i suoi ragazzi, nella giornata delle cooperative sociali. I ragazzi hanno fatto un bell’intervento, lui se ne è rimasto in fondo. Poi, finito l’incontro, se ne è uscito a fumare, e ha cominciato a ricevere tanti sms: «Torna qui, il Papa vuole salutarti». Ha creduto a uno scherzo, e ha continuato a fumare. Finché non sono arrivate due Guardie svizzere a prenderlo. Così, si è ritrovato davanti al Papa. «Mi ha stretto forte le mani e mi ha detto: “Grazie”. E io, non sono stato capace di una sola parola». Così che, pensi, e sorridi, almeno uno che lo ha fatto ammutolire anche don Antonio lo ha trovato.

Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/Marina Corradi)

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