Per molti anni Loffredo è prete nella periferia Est di Napoli, nel 2001 sbarca alla Sanità. Non un posto facile: criminalità, disoccupazione, degrado. «I primi tempi mi sono guardato semplicemente intorno. Ho vestito l’abito, e ho cominciato a girare il quartiere. La camorra? Vede, io tengo a dire che non sono qui “contro” nessuno. Io sono “per”, per i ragazzi, per questa gente. Anche i figli dei camorristi sono i miei bambini. Voglio che la mia parrocchia sia una fontana d’acqua viva, in cui chiunque può entrare e bere. Non domando chi sei, che cosa fai; non sarei cristiano». Si accende una sigaretta. «L’ultimo che hanno ammazzato qui – continua con una sfumatura di dolore –, a gennaio, era un mio ragazzo, aveva un bambino, stava per sposarsi. Vede, al Nord mi pare che voi pensiate che il male e il bene sono due cose nettamente divise. Al Rione Sanità, no: male e bene sono insieme, strettamente intrecciati», e fa il gesto di due mani con le dite annodate. «E poi – continua – al Nord voi fate quello che è ragionevole; qui alla Sanità invece la gente non bada alla ragionevolezza, ma fa ciò che le piace, ciò che la affascina. Il che è un limite, ma anche una possibilità. Perché nel momento in cui diventano tuoi amici, per te fanno qualsiasi cosa (il cristianesimo, diceva il cardinale Ursi, «passa sui ponti dell’amicizia»). E quanto questa mia gente è sensibile alla bellezza. Alla musica, per esempio: abbiamo formato un’orchestra con maestri volontari, con quaranta ragazzini che non sapevano leggere una nota. Hanno suonato anche davanti al Papa e a Napolitano. Qualcuno ha scoperto di aver talento, farà l’Accademia. E sono figli di poveri, o anche di gente che è passata dalla prigione».
La bellezza – quella che secondo Dostoevskij ci salverà – come strumento di riscatto. La sera, per strada, ti frastorna il correre a rotta di collo dei ragazzi in moto, senza casco, anche dodicenni, anche in tre su uno scooter. Però, alla chiesa di San Severo, incroci i ragazzini di don Antonio con il violino a tracolla, che vanno a provare. Nell’imminenza della festa del quartiere si prova anche nel teatro, e nella scuola di danza della parrocchia. È come se un fuoco fosse stato acceso tra i vicoli della Sanità, e avesse cominciato a ardere nelle sue chiese. Qui accanto un altro prete, don Vitiello, ogni notte ospita 120 senzatetto. Nessuno protesta. I poveri hanno pietà degli ultimi. Dice don Antonio: «C’è una cosa che stiamo sperimentando qui, e che mi preme dire. Ovunque in Italia la Chiesa ha un immenso patrimonio di bellezza, di arte, di immobili. Spesso sono vuoti, o in abbandono. Non dobbiamo venderli, dobbiamo creare progetti validi che attirino finanziatori, e farli gestire da cooperative sociali (la «strada maestra», secondo papa Leone XIII) che diano lavoro ai nostri ragazzi. Dobbiamo capire che la bellezza è generativa. Ma c’è troppa paura del nuovo, troppa diffidenza. Dobbiamo osare, invece. La carità ci interpella: lo dice il Papa. Vorrei vedere la mia Chiesa più profetica, capace di iniziare un nuovo umanesimo». Qualcuno potrebbe obiettare che i preti si occupano di cura d’anime… «Guardi, io non ho mai visto un’anima camminare. L’uomo è tutto intero, e ci è stato detto che risorgeremo nella carne. Mi pare quasi un’eresia, questa del pensare solo all’anima». Case per ragazze madri, assistenza agi immigrati, doposcuola per bambini, la canonica trasformata in bed and breakfast e gestita da un’altra coop di ragazzi, un nuovo progetto simile esportato ai Quartieri Spagnoli, le catacombe e molto altro. Come si finanziano tanti progetti? «Ho molti amici a Napoli, che a certe idee credono, e ci investono». E se un giorno la Provvidenza la tradisse, se non avesse i soldi necessari? Ride ancora: «Guardi, io personalmente di soldi non ne ho mai, questo è un problema che proprio non tengo… Comunque, ho imparato che, buttandosi, uno più uno fa tre». In canonica arriva un ragazzo sui vent’anni con in braccio una bella bambina: è sua figlia. Racconta don Antonio: «Questo, da ragazzino, è finito in carcere minorile per rapina, poi mi è stato affidato dal Tribunale, quando è arrivato mi ha abbracciato e m’ha detto: “Non farmi tornare più in carcere”. Gli è nata questa bimba, ora lavora con la nostra coop, vive con la sua ragazza, sta rinascendo…». E a Messa, stasera, ci sono la mamma e la fidanzata di quell’altro, quello ucciso a gennaio dalla camorra. Alla Sanità, è vero, con il calar della sera puoi non sentirti sicuro. Però, noti, quanti bambini: tantissimi bambini. Qui, dice don Antonio, «se a 16 anni una ragazza resta incinta, quasi sempre tiene il bambino: c’è povertà, ma anche un favore naturale per la vita». In questo humus povero e ricco assieme, don Loffredo, prete grazie a un prete spretato, è un irrefrenabile ciclone. (La sua forza, dice, sono gli occhi della sua gente; la sua forza è l’amicizia di Cristo, e le due cose paiono una sola). Ma mesi fa Antonio è andato dal Papa con i suoi ragazzi, nella giornata delle cooperative sociali. I ragazzi hanno fatto un bell’intervento, lui se ne è rimasto in fondo. Poi, finito l’incontro, se ne è uscito a fumare, e ha cominciato a ricevere tanti sms: «Torna qui, il Papa vuole salutarti». Ha creduto a uno scherzo, e ha continuato a fumare. Finché non sono arrivate due Guardie svizzere a prenderlo. Così, si è ritrovato davanti al Papa. «Mi ha stretto forte le mani e mi ha detto: “Grazie”. E io, non sono stato capace di una sola parola». Così che, pensi, e sorridi, almeno uno che lo ha fatto ammutolire anche don Antonio lo ha trovato.
Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/Marina Corradi)
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