Italiae et Ecclesia

Don Puglisi: Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti. 24 anni fa, ucciso dalla mafia

Ventiquattro anni fa a Palermo veniva barbaramente ucciso Padre Pino Puglisi. Era il giorno del suo 56° compleanno.
Nel quartiere Brancaccio, dilaniata dalla guerra delle cosche mafiose, portava la parola di Dio riuscendo a strappare i giovani alla criminalità, mostrando loro che esisteva un’altra strada, che potevano diventare uomini e donne migliori.

È stato beatificato il 25 maggio 2013, sul prato del Foro Italico di Palermo, davanti ad una folla di circa centomila fedeli. “Padre Pino Puglisi – ha detto papa Francesco – è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà però è lui che ha vinto con Cristo risorto”.

Padre Pino Puglisi, che a Palermo era nato, conosceva bene la città. Sapeva che mafia e criminalità cercano manovalanza nei quartieri più difficili, dove vivono persone, a motivo della loro condizione economica e culturale, escluse dalla società.

Il Centro Padre Nostro, da lui fondato ed aperto il 29 gennaio del 1993, è stato – ed è tutt’oggi – la casa dei giovani, un posto dove recuperare la cultura della legalità, dove chiunque poteva ricevere conforto, consigli, aiuto. La lotta di Padre Puglisi alla mafia, che lo condannò a morte, fu chiara e coraggiosa.



«Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti». Ricordando don Pino Puglisi a 24 anni dal suo martirio, tornano alla mente le sue parole, negli ultimi giorni prese in prestito per molti articoli di cronaca a commento delle minacce di Totò Riina, ascoltato dalle cimici della polizia giudiziaria nel carcere di Opera mentre quasi si vanta dell’assassinio del parroco di Brancaccio e immagina analoga fine per don Luigi Ciotti. La loro colpa? «Succhiano aria alla mafia», lamenta il boss, indirettamente confermando l’attendibilità del movente dell’omicidio, che ha poi portato alla beatificazione del sacerdote palermitano: Puglisi voleva fare il prete fino in fondo, e forte del Vangelo sottrarre i ragazzi alle grinfie della malavita, far pensare, ridare fiducia alla gente.

Era, ed è, l’emblema della Chiesa che testimoniando Cristo e annunciando il vangelo, fa male alla mafia perché cerca di saldare la terra al cielo. Come la Chiesa di Papa Francesco, che – egli ce lo ricorda sempre – deve camminare nella quotidianità con la matura consapevolezza che «una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo» da parte di cristiani che non siano «vino annacquato».

Che cosa ci ha consegnato don Puglisi, col suo martirio? Lo ricordava proprio don Ciotti, in un articolo all’epoca per molti versi profetico, pubblicato su Avvenire 5 il 5 settembre del 1994: «Egli ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere come preti, in parrocchia. Con la sua testimonianza ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio. Non il silenzio di chi rinuncia a parlare e denunciare, ma quello di chi, per la scelta dello stare nel suo territorio, rifiuta le passerelle o gli inutili proclami». Pochi cenni che restituiscono il ritratto dell’uomo che nella primavera del 1990 approda a Brancaccio, iniziando a bussare a tutte le porte perché, diceva, «bisogna prima conoscere, poi capire, infine agire».

Non tutte le porte si aprono. Alcune restano chiuse. Altre si spalancano sull’inferno: vite miserabili, fame, malattie tenute segrete, invalidità nascoste. Famiglie intere ridotte a vivere in un’unica stanza. E fuori un quartiere privo di tutto, dall’illuminazione pubblica all’asilo, dal pronto soccorso alla scuola media. Attorno, dentro e sopra ogni cosa, la cupola mafiosa dei capi del mandamento, i fratelli Graviano.



Troppo scomodo, quel prete, per gente abituata a comprare ogni cosa, anche gli uomini. Ma quel sacerdote è senza prezzo non fa professione di antimafia, non gira con la scorta, non vive da eroe, ma la mafia la combatte con l’esercizio coerente del suo ministero: sacramenti, liturgia, processioni, impegno sociale. E ancora, dispensando il Verbo e coniugandolo col sostegno a battaglie di civiltà che vogliono significare, da subito, istruzione, servizi, cultura, senso civico. Lavora in silenzio, non fa clamore, non va sui giornali, ma scava nelle coscienze, costruisce legami, apre prospettive diverse. Ascolta, don Puglisi. Tutto e tutti. Fa parte del suo modo d’essere: anche senza parlare di religione o di Dio, nel delicato momento dell’approccio si apre alla comprensione, specie degli ultimi e dei deboli, consapevole della necessità di imparare prima a condividere a lungo il pane e il vino con loro, rispettando i tempi di ciascuno, invitando ognuno a scandagliare il proprio animo, per misurare le energie prima di scegliere un traguardo.

«Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Il Signore bussa e sta alla porta. E bussa. Quando il cuore è pronto si aprirà», ripeteva, conscio che l’importante fosse l’incontro con Cristo Gesù Salvatore. «Venti, sessanta, cento anni, la vita, a che serve – scriveva – se sbagliamo direzione? Ciò che importa è incontrare Cristo, vivere come lui, annunciare il suo Amore che salva. Portare speranza e non dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto, anche pagando di persona, siamo i costruttori di un mondo nuovo».

E di un mondo nuovo il Beato è stato interprete e costruttore. Prima di lui, ad ammazzare un prete che con coerenza vive il vangelo, la mafia non si era ancora spinta. La Chiesa era, tutto sommato, un territorio franco. Se ne poteva sperare comprensione, rifugio. Ma quel prete rischiava di rompere equilibri secolari. Arrivano allora la condanna, gli spari, la morte. Sotto casa, in piazzale Anita Garibaldi, la sera del 15 settembre 1993, nel giorno del suo 56° compleanno.

Don Puglisi non è stato ucciso perché dal pulpito annunciava princìpi astratti, ma perché ha voluto uscire dalla loro genericità per testimoniarli nella vita quotidiana, dove le relazioni e i problemi assumono la dimensione più vera. Oggi universalmente per i credenti egli è il “testimone credibile perché coerente” con la “Parola”, per i non credenti è un uomo ed un uomo di “Parola” poiché non si è tirato indietro davanti al pericolo. Il suo sacrificio rivive nella coscienza di tutti, monito ai cattolici e agli uomini e alle donne di buona volontà a dire no ai cattivi maestri, ai soprusi, alla mentalità di morte. E tutti esorta a fare di più, con continuità e coerenza, sempre, nella lotta alla mafia e al male. La sua figura sospinge la Chiesa a imboccare la strada del cambiamento con la chiarezza definitiva tracciata da Papa Francesco nella Piana di Sibari, ma impone anche un nuovo modo di intendere e fare la politica e l’economia, attese all’unica testimonianza vera e concreta contro le mafie: dimostrare d’essere impermeabili alle influenze delle cosche.

Soprattutto questo ci ha lasciato don Puglisi: una direzione e un senso per il nostro essere chiesa e mondo, un invito per le nostre parrocchie ad alzare lo sguardo, a dotarsi di strumenti adeguati e incisivi per perseguire giustizia e legalità vere, autentiche, genuine. Col suo sangue il deserto s’è fatto terra fertile: a noi, ora, il compito di rassodare e coltivare quotidianamente, perché dia frutti: coltivare quel campo chiamato speranza.

Vincenzo Bertolone, della Congregazione Missionari Servi dei Poveri, è arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace. E’ stato postulatore della causa di beatificazione di don Giuseppe Puglisi. Fonte: Avvenire

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