Auto nera, targa rossa ‘ S.C.V 1″. Sullo spiazzo davanti al loggiato della basilica Oscar Scalfaro, i ministri Ronchey e Jervolino, il capo della polizia Parisi e un piccolo drappello di vescovi in mozzetta viola attendono Giovanni Paolo II. C’ è anche l’ ex cardinal Vicario, Ugo Poletti, in clergyman nero, i capelli bianchi spettinati e sul petto una gran croce d’ oro con una pietra verde incastonata.
Dietro le transenne Dietro le transenne, accalcati tra le macchine imbottigliate o aggrappati all’ obelisco, turisti e romani scrutano le finestre desolate del Vicariato e lo sciamare inquieto dei servizi di sicurezza. I due grandi vecchi, i padri della Patria e della Religione, si abbracciano a una decina di metri dal cratere della bomba che ha ferito la Madre di tutte le Chiese. Non è un abbraccio vero e proprio. E’ uno di quei gesti forti di Giovanni Paolo II, che quando è commosso ama afferrare il suo interlocutore per le braccia, con vigore. Pallido ed emozionato il presidente Scalfaro ascolta la voce profonda di Wojtyla: “Ho pregato molto e continuo a pregare tuttora per questa Italia”. Il Papa, abbronzato, cammina un po’ curvo ed entra velocemente insieme al capo dello Stato nel grande portone d’ ingresso del Vicariato.
E’ il portale massiccio, che ha salvato la vita a Marcello Lombardo, gendarme di Sua Santità. Martedì, poco dopo la mezzanotte, Lombardo aveva finito il suo giro di ronda nell’ antico palazzo. Si preparava ad uscire sulla piazza. Stava mettendo la chiave nella toppa della serratura. Con calma, con metodo. La bomba lo ha sorpreso in quel gesto. Si fosse lasciato prendere dalla fretta, sarebbe finito spappolato, investito dall’ esplosione dell’ ordigno situato pochi metri più in là. Così se l’ è cavata con quindici giorni. Il papa supera il provvidenziale portone. Gli fa strada il presidente Scalfaro, che per tutta la visita lo informa sui danni e la meccanica dell’ attentato. Dal chiostro papa e presidente si dirigono verso la prima infilata di uffici amministrativi. Una desolazione. Mobili e scaffali ridotti in poltiglia. Finestre devastate come occhi senza pupille.
Pratiche ormai inutili scaraventate per terra, mescolate ai detriti. Per una porta interna Scalfaro e Wojtyla entrano nella basilica. Il ciborio gotico di Arnolfo di Cambio, sull’ altare centrale, si staglia nella penombra. Intatto. Come un miracolo. Ma tutto intorno è come dopo un bombardamento. L’ attentato ha sfracellato il portale, che dà sul piazzale dell’ Obelisco. E anche la porta interna di legno massiccio è stata fatta a pezzi dall’ onda d’ urto. I suoi brandelli sono stati scagliati fin quasi ai limiti del ciborio. Giovanni Paolo II guarda attonito. Ai suoi piedi si stende un fitto tappeto di vetri, calcinacci e frammenti di legno.
I detriti arrivano fino al limite estremo del corpo posteriore della basilica. Il papa sfiora con lo sguardo un’ acquasantiera barocca. Non può vedere che l’ acqua benedetta è piena di grumi di vetro. Chi gli è vicino sente che Wojtyla si concentra, si raccoglie in se stesso per meditare nonostante la gente che lo circonda. E’ un suo vecchio costume questo modo di pregare in silenzio, staccandosi per un attimo da tutto. “Sulla soglia della basilica – mormora monsignor Ragonesi, vicegerente del Vicariato – l’ ho visto emozionarsi. Si è raccolto, restando immobile”. La visita prosegue tra gli ordini tesi, che poliziotti e gendarmi vaticani si trasmettono sottovoce. Paura e nervosismo sono palpabili. Scalfaro e Wojtyla si affacciano brevemente sull’ antisagrestia, dove spiccano cassettiere e armadi di rovere impregnati di cera e d’ incenso. L’ uragano dell’ ordigno è arrivato sin qui. Porte sventrate, macerie nel corridoio. E Scalfaro spiega e chiarisce. Racconta le ultime notizie di Milano e comunica al pontefice che fra le cinque vittime c’ è anche un extracomunitario. “In qualche modo, senza saperlo, è morto per la nostra libertà”, commenta il presidente. Wojtyla annuisce. E’ stato lo stesso presidente ad avvertire Giovanni Paolo II dell’ attentato con una telefonata di primo mattino. Il papa lo ringrazia pubblicamente: “Mi ha informato il signor presidente”, esclama rivolto al piccolo seguito. In realtà una telefonata d’ allarme era arrivata alla residenza papale di Castelgandolfo già dopo la mezzanotte di martedì.
La Segreteria di Stato, avvertita dal Viminale, ha chiamato il monsignore vietnamita Tran Ngoc Thu, secondo segretario di Wojtyla. Giovanni Paolo II dormiva già profondamente. Qualche stanza più in là il settantacinquenne Thu è stato a rigirarsi per un paio di minuti, incerto se svegliarlo o no. Poi, visto che al Laterano non c’ erano stati morti, il “prelato d’ onore” ha deciso di non turbare l’ augusto sonno. Ma Karol Wojtyla, misteriosamente, è stato comunque investito dall’ evento. All’ una di notte il papa si è svegliato di soprassalto. “Non sapevo perché – racconterà più tardi al parroco di San Giovanni e ai figli del custode della basilica – solo adesso capisco la ragione”. Terminato il rapido sopralluogo in cattedrale, lasciatesi alle spalle le reliquie di Pietro e Paolo, il pontefice giunge al portico, sovrastato dalla celebre Loggia. Scalfaro gli mostra il cratere dell’ esplosione, una buca profonda qualche metro, e gli presenta i vigili del fuoco. Ragazzi giovani dal volto simpatico, che stendono la mano verso il pontefice. “Sono persone splendide, li conosco da quando stavo al Viminale”, sottolinea il presidente, aggiungendo che uno di loro, morto a Milano, avrebbe festeggiato oggi il suo compleanno. Adesso Giovanni Paolo II ci passa accanto vicinissimo. Ha lo sguardo mite e smarrito. Tende la mano anche lui verso i giovani pompieri in divisa kaki e sul suo viso appare un sorriso tra il timido e il dolce. Dietro la pattuglia dei vigili giace il motore della macchina, che nascondeva la bomba, e più in là – ma il papa non lo vede – è ancora parcheggiato con le portiere sfondate uno strano pullmino rosa shocking, con un affresco psichedelico sulla fiancata: un Dragone verde che si getta all’ amplesso su una lady Godiva voluttuosamente rovesciata. Ultima tappa. Passati sotto gli appartamenti del cardinal Vicario Ruini, fortunatamente in Francia al momento dell’ attentato, perché altrimenti sarebbe stato colpito da una pioggia di vetri in frantumi, papa e presidente arrivano al vecchio battistero sul retro della basilica. Le antiche colonne di porfido rosso non sono state scalfite, ma anche lì vetri e infissi sono stati violentemente spaccati. “Ci rivediamo presto al Velabro” è l’ affettuoso commiato di entrambi.
Il nuovo incontro avviene pochi minuti dopo l’ una. La vista della facciata distrutta della vecchia chiesa alle pendici del Campidoglio è ancora più sconvolgente. Per Wojtyla San Giorgio al Velabro è un tempio particolare. Nel vicino pensionato francescano Wojtyla venne qualche volta da cardinale. Mentre presidente e papa sostano davanti alla chiesa, esplode la piccola manifestazione di un gruppo di famiglie di una casa adiacente, danneggiata dall’ attentato. Interviene il capo della polizia Parisi: le famiglie colpite saranno mandate in un albergo a cura del Comune. La visita blitz si conclude, corteo presidenziale e corteo papale si perdono nel traffico romano, cala sulla Capitale l’ atmosfera sonnacchiosa del pranzo e il Vaticano torna alla sua routine dietro le mura leonine. Ma dietro la calma ostentata, nonostante l’ apparenza di business as usual, la Santa Sede è rimasta profondamente ferita dall’ avvenimento. Parole durissime Il cardinale venezuelano Castillo Lara, “governatore” della Città del Vaticano, vagava ieri mattina con il volto tirato fra le macerie, che ingombravano il pavimento della basilica di San Giovanni. “Questo attentato – ci ha detto – ha un significato gravissimo per una nazione cattolica”. Prima dell’ arrivo del papa incontriamo il numero 2 del Vicariato, monsignor Remigio Ragonesi. Il vescovo, avvolto in una grande tonaca da prete di altri tempi, si sfoga amareggiato. “Provo angoscia – confessa – perché si avverte un senso di oltraggio alla cattedrale di Roma”. Monsignor Dionigi Tettamanzi, segretario della Cei, pensa al domani: “Guai a cedere alla strategia della tensione, adesso c’ è bisogno, invece, di un cammino unitario per il bene del Paese”. Wojtyla, all’ udienza generale, usa parole durissime contro “i vili attentati e i crimini efferati”. Scaglia vergogna su mandanti ed esecutori, prega per le vittime e l’ avvenire d’ Italia, benedice “il diletto popolo italiano”. E tuttavia un discorso non basta ad esorcizzare l’ inquietudine. A dodici anni dai colpi di pistola di Alì Agca il terrorismo colpisce di nuovo la Chiesa. Da martedì notte le pantere della polizia pattugliano più numerose le mura dei sacri palazzi.
L’autore del servizio in data 1993 è MARCO POLITI, ex vaticanista di Repubblica
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