Categorie: Ethica et Oeconomia

Quando i comunisti non tolleravano i Gay

Basterebbe leggere gli scritti di Palmiro Togliatti o le cronache dello scandalo che coinvolse il partito e Pier Paolo Pasolini..

Tra la fine del 1949 e i primi mesi dell’anno seguente Pier Paolo Pasolini venne espulso dal Partito Comunista Italiano, ufficialmente per «deviazioni ideologiche», in verità per uno scandalo omosessuale in cui il futuro regista era rimasto coinvolto. Come ricorda Marco Belpoliti in un suo saggio dedicato alla faccenda, nel settembre del 1949 il settimanale comunista di Udine, Lotta e lavoro, aveva accusato di corruzione di minorenni un alto esponente democristiano del quale venivano fornite pure le iniziali.
La clamorosa sconfitta nelle elezioni del 18 aprile 1948 ancora bruciava, e specialmente nel Friuli-Venezia Giulia la batosta per i comunisti era stata pesante. Così, lo scandalo Pasolini – che era pure segretario di sezione – a poche settimane di distanza non poteva essere tollerato. Al di là degli artifici verbali della misura espulsiva, il giudizio del Pci sull’omosessualità era, a quel tempo, diametralmente opposto a quello, odierno, dei suoi eredi. Sempre Belpoliti rammenta che nel maggio 1950 (dunque, pochi mesi dopo l’espulsione di Pasolini) su Rinascita, la rivista ufficiale del partito, il leader Palmiro Togliatti, firmandosi con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia (singolarmente, un grande combattente cristiano contro i musulmani del IX secolo), se l’era presa con le posizioni antisovietiche dello scrittore francese André Gide, consigliando a quest’ultimo, piuttosto, di «occuparsi di pederastia, dov’è specialista».


Ma che cosa aveva fatto di particolarmente grave Pasolini? Niente, per gli standard attuali. Vediamo. Il 30 settembre 1949, la sera della festa patronale a Ramuscello (frazione di Sesto al Reghena, in provincia di Pordenone, Friuli) il professor Pier Paolo Pasolini, insegnante di scuola media e noto attivista comunista, si era infrattato in un campo con tre ragazzotti tutti tra i quindici e sedici anni, che poi erano stati ricompensati con 10 lire a testa (una decina di euro odierni). La cosa, tuttavia, si era risaputa ed era finita nell’orecchio dei carabinieri. Nessuno aveva sporto denuncia, ma c’erano implicati dei minorenni e la cosa andò avanti d’ufficio. Il ventisettenne Pasolini era già un personaggio noto nella zona tra Pordenone e Udine: insegnava a Valvasone, scriveva di poesia e saggistica, pronunciava discorsi per il partito di cui era ardente oratore e tesserato dal 1947. Quella sera era venuto alla festa col cugino Nico, figlio della sorella di sua madre, anche lui omosessuale e poeta. Ma questi non aveva voluto seguirlo nell’avventura erotica. Solo che, qualche giorno dopo, i tre ragazzotti avevano litigato apertis verbis in pubblico e si erano insultati a vicenda descrivendo a tinte vivaci l’episodio avvenuto tra i cespugli di Ramuscello.

I carabinieri, sulla scorta della voce dilagata, indagarono e già nell’ottobre la pretura aprì il procedimento. La zia di Pasolini ottenne che le famiglie dei tre ragazzi restassero fuori dal processo in cambio di 100mila lire ciascuna, ma il procedimento penale proseguì, per forza di cose, d’ufficio. L’imputato, in appello, se la cavò abbastanza bene, dal momento che i tre minori erano stati abbondantemente consenzienti e gli “atti osceni” si erano svolti in luogo non certo pubblico. Detto appello si svolse nell’aprile del 1952 a Roma, perché fin dal 28 gennaio 1950 il professor Pasolini vi si era trasferito insieme alla madre, lasciando casa nottetempo e il Friuli con un treno dell’alba. L’intellettuale e la mamma erano letteralmente scappati da quelle terre ingrate, ma anche dall’ira funesta di Carlo Alberto, padre di Pier Paolo.
Quest’uomo, di nobiltà romagnola e fascista della prima ora, medaglia d’argento nella guerra d’Africa col grado di maggiore, era stato prigioniero degli inglesi dal 1941 al 1947. Al ritorno aveva trovato che suo figlio Guido, fratello minore di Pier Paolo e partigiano “bianco”, era stato ucciso nel 1945 con tutta la sua brigata “Osoppo” a Porzûs dai partigiani comunisti (tra le vittime, anche Francesco De Gregori, zio dell’omonimo cantautore). E che l’altro suo figlio era comunista e omosessuale. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata l’inchiesta dei carabinieri e il fattaccio di Ramuscello finito sulla stampa. L’uomo doveva aver dato di fuori da matto e la moglie doveva aver preso le difese di Pier Paolo (legatissimo a sua madre, tanto da utilizzare proprio lei per la parte della Madonna nel film Il Vangelo secondo Matteo). Da qui le valigie in fretta e furia. In una lettera di rammarico a un suo amico, Pasolini scrisse che, malgrado l’immeritata espulsione, «resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola».

Redazione Papboys (Fonte www.bastabugie.it/Rino Cammilleri)

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