La Chiesa ha in questi giorni fatto memoria liturgica del Beato Charles de Foucauld, figura molto particolare di missionario, che vale la pena ricordare a cento anni dalla sua morte. Il suo desiderio è uno solo: rendere vivo Gesù fra i musulmani del deserto attraverso la presenza del Santissimo Sacramento.
Nato a Strasburgo il 15 settembre 1858 in una famiglia aristocratica, orfano molto giovane, allevato dai nonni materni, eredita ingente fortuna che gli permette una vita spensierata, da libertino amante di gesti stravaganti.
Dopo alcuni anni di vita militare abbandona l’esercito e prepara un viaggio esplorativo nel sud del Marocco, zona assolutamente vietata agli occidentali. Stabilitosi ad Algeri per imparare l’arabo, trova come guida un anziano mercante e rabbino ebreo, si traveste anche lui da rabbino e riesce ad attraversare una zona mai visitata da europei, facendo importanti rilievi antropologici, linguistici ma soprattutto geografici.
Convertitosi nell’ottobre 1886, vive intensamente un pellegrinaggio in Terra Santa dove sente la vocazione ad una vita religiosa, solitaria e povera. Soggiorna prima presso i benedettini di Solesmes, poi nelle trappe di Soligny e Nostra Signora di Ardèche e infine presso i gesuiti di Clamart. A 32 anni entra nella trappa di Notre-Dame-des-Neiges con il nome di fratel Alberico Maria e pochi mesi dopo parte per la trappa di Cheikhlé in Armenia dove rimane per sei anni.
Sente sempre più forte il bisogno della preghiera, della povertà più assoluta, del silenzio e del nascondimento sull’esempio di Gesù a Nazareth e così nel 1897 chiede e ottiene di uscire dall’Ordine. Torna in Terra Santa e si stabilisce presso le clarisse a Nazareth, dove fa di tutto: falegname, fattorino, giardiniere, segretario vivendo il più nascosto possibile in cambio del puro mantenimento.
Nel 1899 decide di prendere il nome di fratel Carlo di Gesù che manterrà fino alla morte e finisce di scrivere la Regola di un ipotetico ordine religioso in cui si ispira a sant’Agostino. Ordinato sacerdote a 43 anni, parte per l’Algeria, stabilendosi a Beni Abbès, nel Sahara, con la speranza di penetrare in Marocco per portare a quella gente la presenza di Gesù sacramentato.
Le sue esperienze giovanili, la frequentazione di arabi e berberi lo hanno convinto che non è pensabile un’opera di conversione attraverso forme di proselitismo: troppo lontani i due mondi! Solo con la dolce presenza di Gesù e con la lenta acquisizione della loro lingua, dei loro usi e costumi, della loro struttura sociale, solo entrando in confidenza con loro, solo conquistando la loro fiducia sarà possibile far loro conoscere il cristianesimo. E allora che cosa possiamo fare? È lui che scrive «in che modo possiamo unire a noi questa gente? Civilizzandola [il termine tipico dell’epoca nasconde però un significato diverso], facendo per questa gente ciò che vorremmo si facesse a noi; trattandoli con giustizia e bontà… lavorando per farli progredire al massimo, per elevarli moralmente e intellettualmente quanto più si può, e questo è un dovere di carità. Amare il prossimo come noi stessi».
Che cosa fa fratel Carlo di Gesù in Algeria? Vive in un’umile capanna, traendo il sostentamento da un piccolo orto che lui stesso coltiva, ma soprattutto, quando può, celebra la S. Messa, conserva il SS. Sacramento, accoglie la gente di passaggio, offre cibo e acqua ai poveri, si scaglia contro l’obbrobrio della schiavitù, talvolta presta cure anche mediche oltre che spirituali, ma soprattutto studia il dialetto dei berberi e la lingua dei Tuareg.
Prima di tutto è convinto che la lingua sia l’unico strumento per penetrare tra queste popolazioni e quindi per anni studia, cerca di catalogare detti e proverbi, scrive un dizionario tuareg-francese e francese-tuareg, raccoglie leggende ed epopee delle varie tribù.
Così facendo ottiene l’amicizia e la stima dell’amenokal Moussa Ag Amastan, gran capo dell’Hoggar, da cui viene spesso consultato anche su delicate questioni politiche nei confronti dei Francesi.
Si rende conto di non poter restare da solo e pensa a dar vita concreta ad una congregazione religiosa il cui progetto era già stato approvato dal suo vescovo: i Piccoli Fratelli di Gesù. Non si ferma e pensa anche ad un ramo femminile, le Piccole Sorelle di Gesù.
Nel 1907 cercherà di dare struttura ad un terz’ordine chiamato Unione dei Fratelli e delle Sorelle del Sacro Cuore di Gesù, laici missionari disposti a vivere in mezzo ai musulmani e testimoniare la fede cristiana.
Il suo grande amore resterà sempre il Cuore di Gesù e la Sua presenza nell’Ostia consacrata, di fronte a cui passa notti intere in preghiera. Scrive «Più si dà al Signore e più Egli rende. Ho creduto di dar tutto lasciando il mondo… ho ricevuto più che non avessi donato». «Gesù si offre per essere compagno per tutte le ore. E questo non ci basta? Lasceremo il Creatore per andare alle creature? Sì, Gesù basta: là dove Egli è, niente manca».
Allo scoppio della Prima guerra mondiale fratel Carlo costruisce una specie di fortino a Tamanrasset per dare rifugio alla popolazione locale in caso di necessità.
Il 1 dicembre 1916, primo venerdì del mese, dedicato al Sacro Cuore di Gesù, verso le sette di sera, il fortino subisce l’aggressione da parte di 40-45 fellaga (banditi, predoni), aderenti alla confraternita sufi Senussiyya. Contro un pensare comune, non sempre il mondo sufi è pacifico e solo spirituale, talora da un gruppo nato per approfondire il Corano sono nate forme violente che hanno portato i propri membri all’uso delle armi e all’aggressione spesso indiscriminata dell’avversario religioso.
Armati di fucili italiani, attratti dalle riserve conservate nel fortino, costringono fratel Carlo ad uscire, lo legano con le mani e piedi, lo addossano al muro esterno, lo affidano alla custodia del più giovane della banda mentre gli altri si danno al saccheggio. Due soldati di rientro dal loro turno di controllo presso il vicino villaggio si stanno dirigendo verso il fortino, fratel Carlo compie un gesto spontaneo, forse per avvisarli del pericolo. La giovane guardia perde la testa, punta il fucile e spara. Fratel Carlo muore in pochi istanti, da solo come è sempre vissuto, in mezzo (e per loro mano) ai suoi Tuareg, che in ogni modo ha amato e aiutato, lasciando alla Chiesa il suo esempio di abnegazione, di missionarietà innovativa, di lucida analisi della situazione sociale, culturale, storica in cui è vissuto, di santità di vita e di insaziabile amore al Signore Gesù. Ma da quel seme è nata una grande pianta, tale che la famiglia spirituale di Charles de Focauld conta oggi 12 congreegazioni religiose e 8 associazioni di vita spirituale.
Padre Charles de Foucauld è stato beatificato da papa Benedetto XVI il 13 novembre 2005.
Fonte lanuovabq.it