Se il sacerdote all’altare deve conformare tutta la sua vita a Cristo e vivere la Messa come atto salvifico è necessario che egli si “fonda” con il suo Maestro e diventi una sola cosa con Lui. Non sono storie, queste: «Vivo io ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal 2,20) non lo disse un pazzo esaltato, ma san Paolo.
Egli era un mistico, uno “dentro” il quale viveva lo stesso Gesù. Io non sono Gesù Cristo, ma se sono in grazia devo credere che Dio viva in me. Non sono io per primo che lo voglio: è Dio che urge e preme, senza forzare la mia libertà, per essere accolto. Se dico di sì, nella fede, Egli viene.
«Padre, che cosa è la Comunione? – chiesero un giorno a Padre Pio –. È una incorporazione?». «È una fusione – fu la risposta –: come due ceri che si fondono insieme e non si distinguono più». Dio, che è amore, non può sopportare di dare qualcosa di Sé, Egli si dona totalmente come se io fossi unico su tutta la terra: mi dona il suo Corpo, il suo Sangue, la sua Anima e la sua Divinità. Ma evidentemente questo dono suppone e invoca la reciprocità; l’amore o ci trova uguali o ci fa uguali, diceva san Giovanni della Croce, e proprio per questo nella Messa e nella Comunione avviene lo scambio che possiamo chiamare “nuziale”, come scrive Don Divo Barsotti: «Tu senti di essere posseduto: Egli vive nella tua volontà, nei tuoi pensieri, vive nella tua memoria, nei tuoi sentimenti. Sempre più, attraverso questo dono, Egli ti invade e ti possiede, non ti lascia nulla. Non è il dono di una cosa, di una sua ricchezza, ma il dono di Sé; ma Egli vuole che tu lo accolga e lo riceva. È libero il suo amore, ma attende da te un libero consenso. Se tu vuoi essere amato, è nel tuo donarti a Lui, è nel lasciarti possedere la tua gioia: e, come nulla Egli riserva per Sé, così nulla puoi tollerare che ti rimanga e che Lui non possegga» (cf. La vita in Cristo, Morcelliana, Brescia 1983).
Ebbene, Padre Pio questo lo vive pienamente al punto tale che nella Messa – caso unico al mondo, che si sappia – egli vive e sente realmente i dolori della Passione del Signore, come è possibile viverli per noi uomini.
Prima di celebrare egli andava in agitazione: sapeva che avrebbe dovuto patire. Si preparava come dovesse affrontare una grande prova. E tale era la sua Messa! Al tempo stesso ne era invincibilmente attratto. Guai per lui non celebrare la Messa: era venuto al mondo per questo. Ma era una prova terribile. Curvo su di sé e concentrato già dall’alzata notturna, in sacrestia si isolava in silenzio togliendosi i guanti; quando entrava nella chiesa stipata era come non vedesse nessuno, perché egli già sentiva i dolori della Passione. «Padre, che cosa devo vedere nella vostra Santa Messa?», gli chiese padre Tarcisio da Cervinara. «Tutto il Calvario», rispose Padre Pio piangendo. […].
Ascoltiamo ancora parte del dialogo tra Padre Tarcisio e Padre Pio: «Padre, ma voi siete tutto una piaga dalla testa ai piedi!». «E non è questa la nostra gloria? E se non ci sarà più spazio per fare altre piaghe nel mio corpo, faremo piaga su piaga». «Dio mio, questo è troppo! Siete, padre mio, un vero carnefice di voi stesso!». «Non ti spaventare, ma gioisci. Non desidero la sofferenza in se stessa, no, ma per i frutti che mi dà: dà gloria a Dio e salva i fratelli. Che altro posso desiderare?». «Quando siete flagellato la notte […] siete solo o vi assiste qualcuno?». «Mi assiste la Vergine Santa; è presente tutto il Paradiso». Non c’è solo la flagellazione nella Passione del Cristo, ma anche la corona di spine. Padre Tarciso: «Padre, è vero che durante la Messa soffrite il supplizio della corona di spine?». Risposta: «E lo dubiti?». «Durante tutta la Messa?». «Anche prima e anche dopo, il diadema non si lascia mai».
Si capisce come Padre Pio arrivasse già mezzo morto in sacrestia prima di iniziare la Messa. Ma con quale grande amore si preparava pensando alla gloria che avrebbe dato a Dio! Egli era lì per strappare anime dalle tenebre e immergerle nella luce, ossia per compiere l’opera del Salvatore. Il passo verso l’altare era faticoso, strascicato… era una pena vederlo. Non dimentichiamolo: aveva i piedi perennemente forati e doloranti. Forse alcuni non si rendono conto di questo dettaglio, ma se ci conficcassero dei chiodi nei piedi da parte a parte, come cammineremmo?
L’ingresso del Sacerdote stigmatizzato nella chiesetta di San Giovanni Rotondo era già qualcosa che atterriva. La gente puntava gli occhi su di lui e, intuendo misteriosamente qualcosa, rimaneva sconvolta. Non una parola, non un canto d’ingresso, non chitarre o inni: solo un silenzio che schiantava e che preparava magistralmente l’anima all’incontro con Dio.
«Nel nome del Padre e del figlio e dello Spirito Santo» (riportiamo in italiano, ma la Messa era naturalmente quella in latino): parole che pronunciava a fatica, sovente scoppiando in pianto. Salito poi all’altare si appoggiava penosamente alla mensa curvandosi e fermandosi a lungo. Chiede Padre Tarcisio: «Padre, nel Sacrificio divino voi prendete su di voi le nostre iniquità?». «Non si può fare diversamente, perché fa parte del divin Sacrificio». E stava lì, curvo, come nel Getsemani. Interrogato sulla sofferenza, gli fu chiesto: «Padre, in quali ore del giorno voi soffrite di più?». «Durante la celebrazione della Santa Messa, e in modo crescente, in particolare dalla consacrazione alla comunione». «Anche durante il giorno, padre, soffrite ciò che vivete durante la Messa?». «Starei fresco! E come potrei lavorare? Come potrei esercitare il mio ministero?».
Durante l’ascolto dell’epistola e del Vangelo, sovente si asciugava le lacrime. Dolore e commozione. «Padre, perché piangete quasi sempre quando leggete il Vangelo alla Messa?». «E ti par poco che Dio conversi con le sue creature?». Dopo le letture, niente prediche. Padre Pio non predicava mai: la sua ars celebrandi era la sua predica. Gesù stesso nel Calvario non parla più, se non con poche faticose brevi frasi. E come poteva fare lunghi discorsi un uomo flagellato, coronato di spine, inchiodato a un palo di legno in modo che non potesse quasi respirare? Quello che aveva da dire, Gesù lo aveva già detto nei tre anni di vita pubblica: ora Gesù è l’agnello immolato che “muto si consegna nelle mani dei tosatori” (cf. Is 53,7).
All’offertorio Padre Pio si fermava molto tempo in silenzio. Immobilizzato, con gli occhi fissi al crocifisso dell’altare, rimaneva minuti e minuti fermo con la patena e il calice tra le mani. Un giorno darà dell’offertorio questa definizione enigmatica: «L’offertorio è il momento in cui l’anima viene separata dal profano». Ma che faceva Padre Pio in silenzio tanto tempo durante l’offertorio? Ricordava tutte le persone per le quali voleva riparare: le offriva al Signore mettendole nel calice. Ricordava tutti, uno per uno? Possibile? Con tutti quelli che conosceva, avrebbe dovuto avere una memoria da elefante. Pensando che fosse un inutile ed estenuante esercizio di memoria, un giorno un confratello gli fece questa osservazione: «Secondo me, padre, lei fa una memoria generale di tutti i suoi figli, mettendoli come in un calderone e offrendo a Dio tutti coloro che vi si trovano». «Nel calderone ti ci butto a te!», fu la risposta del Santo. Il frate non ebbe più il coraggio di fare altre domande… In altro frangente il Santo del Gargano dirà: «Li vedo tutti i miei figlioli all’altare, come in uno specchio». Non indaghiamo oltre, e andiamo avanti. Ma prima di proseguire, un’osservazione. La gente sapeva che quell’interminabile pausa di silenzio all’offertorio era il momento in cui le persone venivano ricordate, e naturalmente speravano silenziosamente di essere nel novero dei ricordati. Forse a loro volta essi facevano memoria dei loro cari per inserire anch’essi in quell’offerta. Forse quel silenzio era una sinfonia, in Paradiso, di nomi, di persone evocate: tutti dovevano essere presenti, per essere offerti e salvati: quanti più possibile.
Poi la consacrazione eucaristica. «Padre, perché soffrite tanto nella consacrazione?». «Perché è proprio lì che avviene una nuova e ammirabile distruzione e creazione». Espressione sibillina, da vero Padre del deserto. Altra volta, alla stessa domanda, rispose pensieroso: «Tremendo mistero: Dio vittima dei nostri peccati!». Ma la risposta più sconvolgente la diede quando, forzato a dire qualcosa, si lasciò scappare che, dalla consacrazione alla comunione, egli si sentiva “sospeso” proprio come Gesù nelle tre ore della croce.
Si capisce allora come egli a malapena potesse recitare le formule, seppur sottovoce nella Messa tridentina. Soffriva la sete, l’abbandono, l’amarezza, i chiodi, e le stimmate delle mani sanguinavano con gocce che scorrevano giù per i polsi e finivano sul corporale dell’altare. Era l’uomo crocifisso, distrutto, annientato. Come non potevano rimanere turbati coloro che partecipavano a quella Messa? Un testimone diretto (oggi novantaduenne… ne esistono ancora) mi ha detto: «Non si sentiva volare una mosca. Tutti gli occhi erano rivolti a lui, oppure tenuti bassi. Mi sentivo rimuovere interiormente a quella vista, avrei voluto scomparire, eppure mi sentivo attratto e affascinato, e così dovevano sentirsi tutti gli altri». C’era ressa in chiesa, d’estate un caldo afoso, d’inverno un freddo pungente, eppure regnava un silenzio sovrannaturale. Era il momento della croce, del Sacrificio. Non stento a crederlo: sotto la croce, duemila anni fa, non si facevano canti o chiacchiere. Chi vi assistette da vicino (le due Marie e Giovanni) dovette avere uno shock tale da meravigliarsi che non siano caduti a terra svenuti.
La santa Comunione. Quando quest’uomo distrutto apriva la porticina del tabernacolo, a volte tutta la chiesa veniva invasa di straordinario profumo, cosa che aggiungeva stupore e sgomento a quanto già si stava vivendo. La Comunione era la parte culminante della Messa di Padre Pio. Tenendo la sacra Particola tra le mani, prima di nutrirsene il Santo sostava un poco in adorazione. In realtà stava soffrendo moltissimo, ma tali pene si stavano già trasformando in quelle che egli definirà “sofferenze amorose”. Di che cosa si trattasse esattamente, è difficile dire. Merita riportare per intero il dialogo con Padre Tarcisio: «Che cos’è la santa Comunione?». «È la misericordia interna ed esterna. Pregate pure Gesù che si faccia sentire sensibilmente». «Che fa Gesù nella Comunione?». «Si delizia nella sua creatura». «Alla Comunione voi soffrite?». «È il punto culminante, ma sono sofferenze amorose». «Nella Santa Messa morite anche voi?». «Misticamente, nella santa Comunione». «È per veemenza di amore o di dolore che subite la morte?». «Per l’uno e per l’altro, ma più per amore». «E che unione avremo con Gesù in Cielo?». «L’Eucaristia ce ne dà l’idea». Sorprende un poco l’esortazione che Padre Pio dà ai figli di chiedere che Gesù si faccia sentire “sensibilmente”. Abituati a una visione forse troppo astratta della presenza di Dio in noi, teniamo un po’ a distanza gli aspetti sensibili della vita mistica o semplicemente religiosa. Eppure Dio non è un’idea, chiedere che la sua Presenza ci dia segni anche nel piano della sensibilità non è sbagliato. San Francesco vibrava e si passava la lingua sulle labbra ogni volta che si pronunciava il nome di Gesù perché – diceva – solo al nominarlo sentiva una grande dolcezza sulle labbra, come se fossero sparse di miele. Così forse quel dolore sovrumano del sacrificio veniva sopravvestito e inondato di dolcezza divina, diventando “amoroso”. Ecco l’essenza del sacrificio: anime riguadagnate a Dio. Ed è qui tutto il senso del Cristianesimo, se gli si vuole dare la vera dimensione escatologica ed eterna. […].
La Messa terminava con la benedizione, la lettura del Vangelo di Giovanni, la preghiera a san Michele arcangelo e la Salve Regina. Si ritirava, Padre Pio, ed era talmente esausto che gli ci voleva qualche ora per riprendersi. Eppure alla domanda: «Desiderate celebrare più di una Messa al giorno?». Egli rispose: «Se fosse in mio potere non scenderei mai dall’altare». Si capisce allora come la gente accorresse alla Messa di Padre Pio. Era la Messa di Cristo, certamente, come lo è quella celebrata da qualsiasi sacerdote, ma lì si percepiva meglio ciò che accadeva nel Mistero, e nella maggior parte dei casi si usciva di chiesa diversi da come si era entrati. Si capisce anche la perplessità da parte dell’autorità ecclesiastica, che voleva evitare fanatismi. Padre Pio non chiamava nessuno, non convocava alcuno alla sua liturgia, quindi non si può certo imputare a lui alcuna colpa. Se tutti i sacerdoti della Diocesi di Manfredonia o d’Italia, pur senza stimmate, avessero celebrato la Messa come lui, non ci sarebbe stato bisogno di correre a San Giovanni Rotondo.
Eppure, si cercò di fermarlo: fu calunniato pesantemente dal vescovo di Manfredonia Giuseppe Gagliardi, fu accusato di immoralità da alcuni sacerdoti di San Giovanni Rotondo, gelosi del suo successo […]. Ci furono ordini dalla Provincia dei Cappuccini di spostare repentinamente gli orari della Messa di Padre Pio, in modo che i fedeli restassero disorientati, gli fu data una restrizione sul tempo in modo che la sua Messa non superasse un certo minutaggio […]. Tutto questo perché attirava folle alla Messa (dove si convertivano) e al confessionale (dove pure si convertivano). L’uomo di Dio, obbedendo, rimase nel suo posto di battaglia. Il demonio non riuscì a fermarlo. Egli aveva consapevolezza del suo ruolo di mediatore e di combattente solitario. Proprio come un Padre del deserto.
Padre Serafino Tognetti – Alessandro Gnocchi,
Padre Pio. Santo Eremita, pp. 27-37
Fonte www.settimanaleppio.it