Il 6 agosto 1978 Paolo VI moriva alle 21.40 nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo. Una morte quasi improvvisa anche se papa Montini era da tempo sofferente. Nella residenza estiva sui Colli Albani era giunto il 1° agosto. Ad accoglierlo c’era anche l’allora vescovo di Albano, Gaetano Bonicelli, che nell’intervista che pubblichiamo ripercorre quei giorni. Terminava un pontificato di 15 anni durante il quale aveva portato a conclusione il Concilio Vaticano II e aveva guidato l’applicazione delle novità introdotte dall’assise ecumenica. Fu il primo Papa a viaggiare in aereo e a toccare tutti i continenti. Molti suoi scritti – encicliche, lettere apostoliche – conservano tuttora un’attualità straordinaria. È stato beatificato da papa Francesco il 19 ottobre 2014 e sarà canonizzato il prossimo 14 ottobre.
Ha quasi novantaquattro anni, settanta di sacerdozio appena celebrati nella sua terra natale, Vilminore, oltre mille metri di quota al centro della bella Valle di Scalve. Nella sua vita ha conosciuto tre Papi santi («ma non mi è difficile sentirmi legato a tutti i Papi», «tra i pregi che riconosco della mia educazione bergamasca c’è la devozione al Santo Padre»): il conterraneo Giovanni XXIII (da vice assistente delle Acli); Paolo VI (quando dirigeva la pastorale degli italiani all’estero, poi da segretario aggiunto della Cei, quindi come direttore dell’Ufficio delle comunicazioni sociali, infine da ausiliare e poi vescovo di Albano); Giovanni Paolo II (che da Albano lo nominò ordinario militare per l’Italia e poi arcivescovo di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino).
A quarant’anni dalla morte di papa Montini, e alla vigilia della sua canonizzazione, parliamo con un testimone come monsignor Gaetano Bonicelli. I suoi primi contatti con il futuro Paolo VI avvennero proprio a Vilminore (dove villeggiavano carissimi amici bresciani di “don Gibiemme” e poi di “Monsignor Sostituto”); si rafforzarono con Montini arcivescovo di Milano che – attento al mondo del lavoro e delle Acli – lo coinvolse pure nella famosa Missione popolare del 1957 a Milano, e, proprio al Pontefice di Concesio, Bonicelli deve la sua nomina ad Albano.
Qui trovano il baricentro i ricordi degli ultimi incontri dell’arcivescovo Bonicelli al tempo in cui era «vescovo di Albano e dunque di Castel Gandolfo». «Quando il Papa giunge a Castello il vescovo è tra i pochi invitati ad accoglierlo. Ed è sempre qualcosa di bello e di grande…», rammenta Bonicelli. E aggiunge: «In quel ’78 costellato di fatti ben noti, ci fu una novità. Il Papa non arrivò in elicottero come di solito. Preferì un viaggio in auto che gli consentì di fermarsi alle Frattocchie dove c’è il sepolcro del cardinale Giuseppe Pizzardo, già vescovo di Albano, ma soprattutto a lungo potente segretario di quella che allora si chiamava la Suprema Congregazione del Sant’Uffizio».
Ce ne spiega il motivo?
La sosta costituiva un gesto di riconoscenza verso chi, tanti anni prima, aveva voluto Montini in delicati servizi della Santa Sede. Ma fu al contempo esemplare per altri motivi relativi a vicende romane.
Quelle riguardanti Montini poco prima del suo trasferimento a Milano così simile ad un esilio?
Cioè?
Non stava bene. Era davvero provato. In chiesa, mentre parlava alla gente, lui padrone assoluto del lessico, dei pensieri, aveva bisogno di un foglietto per raccapezzarsi. Stentava a parlare. E quando mi accolse nella sua macchina per salire a Castel Gandolfo, poco più di un chilometro, lo trovai tutto rosso in viso, pronto a chiedermi notizie sulla diocesi, in fase di cambiamento con centri come Aprilia e Pomezia un tempo borghi agricoli, ma ormai cittadine, pur rimandando ad un colloquio più disteso a palazzo. Due giorni dopo, il 3 agosto, al di là di ogni protocollo ricevette il neoeletto presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini.
Arriviamo al 6 agosto di quarant’anni fa. Lei era ad Albano?
Come presidente della commissione migranti mi trovavo in Abruzzo per un grande raduno: Messa, discorsi… A tavola il vescovo emerito di Teramo mi disse che la mattina il Papa non aveva salutato i fedeli perché indisposto. Mi tornarono in mente le mie preoccupazioni di pochi giorni prima. Chiesi ammenda alle autorità presenti e con la mia Seicento corsi a casa, o meglio a Castel Gandolfo. Don Fiore, il parroco salesiano, teneva i rapporti con la superiora delle Suore di Maria Bambina addette alla Casa Pontificia. Le notizie arrivavano aggiornate dalla residenza ogni mezz’ora. Il Papa stava male. Alle 18 non c’era già più nulla da fare. Attorno alle 21.40 il Papa si spegneva. Spalancai le porte della chiesa e celebrai il primo suffragio mentre la gente, avvertita dalla radio e dalla televisione, continuava ad affluire. Non avrei mai pensato di diventare per alcune ore il vescovo più seguito dai media di tutto il mondo, facendo in quei momenti da tramite. Restai in piazza alcune ore a dire quel che sapevo alla gente.
E che cosa disse allora di Paolo VI?
Quello che sento profondamente anche oggi. Non era un santo facile o popolare, ma un santo autentico: la sua dottrina e la sua condotta erano Vangelo trasparente. Ho letto bene i suoi discorsi al Concilio, le sue encicliche. Ma ora mi basta il suo capolavoro teologico e pastorale Evangelii nuntiandi: lucidità, fervore, passione. Coinvolge la vita spirituale e la responsabilità apostolica di tutto il popolo di Dio. Papa Francesco ha ragione a trovare in papa Montini motivi d’ispirazione anche per il suo pontificato.
Fonte: Avvenire on line
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