A distanza di tanti anni i ricordi del viaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa si sono addolciti, rivestiti da un’aura soffusa di benevolenza. Ma in realtà fu un viaggio difficile, tempestoso, pieno di spigoli e polemiche.
Sei anni prima la Santa Sede aveva iniziato a stabilire rapporti diplomatici con lo Stato di Israele; una decisione certamente sofferta, e coraggiosa, che poteva porre in difficoltà molti cristiani nel mondo arabo. Giovanni Paolo II era stato l’artefice di quella svolta diplomatica, che ancora – a vent’anni di distanza! – attende la completa realizzazione, con una trattativa infinita, per quanto riguarda lo status della Chiesa in Israele. Ma a dispetto di quella volontà così precisa, e del fatto che probabilmente San Wojtyla è il pontefice romano più amato in ambiente ebraico, il primo impatto non fu di cordialità.
Chi era presente ricorda che Giovanni Paolo giunse sotto una pioggia rada e nel vento all’aeroporto di Tel Aviv, accolto non solo dal Presidente dello Stato di Israele, Ezer Weizman, ma anche dal premier, Ehud Barak. Una cerimonia molto formale, scandita da secchi comandi militari urlati per altoparlante. L’impressione fu di molta cortesia, poco calore, avvalorata dal tono dei discorsi. “Molte generazioni si sono avvicendate dall’inizio della storia del mio popolo – disse il presidente – ma ai miei occhi è come se fossero trascorsi pochi giorni. Solo 200 generazioni sono trascorse da quando un uomo di nome Abramo lasciò la sua patria per dirigersi verso la terra che oggi è il mio paese. Solo 150 generazioni separano la colonna di fuoco salvifico dell’uscita dall’Egitto dalle colonne del fumo annientatore della Shoah. Oggi non siamo più ebrei esiliati e erranti”.
Poche furono le parole che si potevano interpretare come un benvenuto: “Apprezziamo il contributo di Sua Santità alla condanna dell’antisemitismo come ‘peccato contro il cielo e l’umanità’, e la sua richiesta di perdono per le azioni contro il popolo ebraico perpetrate in passato dalla Chiesa”.
L’accento fu posto subito sul “contenzioso” esistente fra la Santa Sede e lo Stato di Israele, Gerusalemme in particolare per cui il Vaticano suggeriva in base alle risoluzioni dell’ONU, uno “status” garantito internazionalmente. “Gerusalemme è il cuore del popolo d’Israele di tutte le generazioni – disse Weizman – la fonte della nostra forza spirituale. Gerusalemme è la città dell’eternità, la città riunificata, la città dei giudici d’Israele, dei re d’Israele e dei profeti d’Israele, capitale e vanto dello Stato d’Israele”.
Il Papa ricordò “Quanto sia urgente la necessità di pace e di giustizia, non solo per Israele, ma anche per tutta la regione”. “Giustizia per tutti”, ha ripetuto perché cristiani ed ebrei, “devono compiere sforzi coraggiosi per rimuovere tutte le forme di pregiudizio”. All’aeroporto non c’era, fra gli altri capi religiosi, il Gran Muftì di Gerusalemme, (per ragioni politiche, verso il governo israeliano) né i due rabbini capo di Israele, quello sefardita e quello ashkenazita. Motivazione ufficiale: ieri era Purim, una festa che ha analogie con il nostro carnevale. A Gerusalemme un solitario striscione dava il benvenuto: «Gerusalemme accoglie il suo Santo Padre». Un clima ben diverso dalla messa del giorno precedente ad Amman, dove la folla ha rotto i cordoni di sicurezza pur di avvicinarsi al Papa.
E certamente sembra che siano passati ben più di quattordici anni se il ricordo va all’incontro con il presidente dell’Autorità Palestinese, Arafat, che ricevette il Papa come se la Palestina fosse già uno Stato. Giovanni Paolo II ha baciato, come all’arrivo a Tel Aviv, una ciotola di terra. E ha ricordato che “La Santa Sede ha sempre riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto naturale ad avere una patria, e il diritto a poter vivere in pace e tranquillità con gli altri popoli di quest’area”. Ribadendo il concetto: non si può “porre fine al conflitto in Terra Santa senza salde garanzie per tutti i popoli coinvolti, sulla base della legge internazionale e delle importanti risoluzioni e dichiarazioni delle Nazioni Unite”. Sembrava che molto fosse a portata di mano: e invece. “Noi siamo alla vigilia della Resurrezione”, disse Arafat. Alla messa celebrata a Betlemme Arafat, musulmano, era in prima fila con la moglie Suha cristiana. “Betlemme è al centro del mio pellegrinaggio giubilare disse papa Wojtyla -. I sentieri che ho seguito mi hanno condotto a questo luogo e al mistero che esso proclama. Questo è un luogo che ha conosciuto il giogo e il bastone dell’oppressione. Quante volte si è udito in queste strade il grido degli innocenti”. Durante la messa invece tacque la voce del mu’azin. “Un segno della cooperazione fra religioni”, commentò Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme.
Un viaggio storico; ma non privo di polemiche, frutto di una lettura storica, in particolare su Pio XII, che probabilmente adesso – anche grazie al lavoro compiuto da istituzioni guidate da ebrei americani – trova molte minori condivisioni di una volta.
Il giorno in cui papa Wojtyla entrò a Yad Vashem, il memoriale della Shoah, sul “Jerusalem Post” è apparsa – a pagamento – una pagina intera critica verso Giovanni Paolo II e Pio XII; il rabbino Meir Lau, che ha avuto parole di elogio per il Papa “un ponte per la comprensione e la speranza”, ha lamentato che il Papa non abbia chiesto scusa “per la Chiesa in quanto tale, che spesso ha attizzato l’odio contro gli ebrei”, e ha auspicato che non siano beatificate “persone che hanno taciuto mentre il sangue ebraico veniva versato”. “Costruiamo un futuro nuovo nel quale non vi siano più sentimenti antiebraici fra i cristiani o sentimenti anticristiani fra gli ebrei” chiese Giovanni Paolo II; e gli rispose il premier Ehud Barak, accettando la mano tesa. Ha ricordato che fra i “gentili” molti cattolici hanno “rischiato la vita per salvare le vite degli altri”. Ha elogiato il Papa: “Lei ha fatto più di chiunque altro per compiere la storica modifica di atteggiamento della Chiesa verso gli ebrei…lei ha inalberato al punto più alto la bandiera della fratellanza chiedendo perdono per i torti commessi da membri della sua fede contro gli ebrei. Apprezziamo profondissimamente questo atto nobile. Naturalmente non è possibile superare da un giorno all’altro tutti i dolori del passato”.
Da Yad Vashem, si può forse dire, è cominciata la svolta che ha portato – con la visita al Muro del Pianto – Giovanni Paolo II a godere di una popolarità senza precedenti nel mondo ebraico. Neanche a lui però è riuscito il miracolo di un incontro interreligioso nella città della Pace, ma che da sempre conosce più lacerazioni di qualunque altra. Il Gran Muftì non si è presentato, accusando i rabbini di avallare l’occupazione israeliana; e ha parlato al suo posto Tasiir al Tamimii, Responsabile della Giustizia per i palestinesi. Il rabbino Meir Lau ha ringraziato il Pontefice per aver riconosciuto “Gerusalemme come capitale eterna e indivisibile dello Stato di Israele”. Qualcuno fra gli astanti ha protestato, ma è stato zittito. Ma Tamimii ha cambiato l’intervento previsto. Ha dato il benvenuto “al grande ospite, il Papa, a nome del popolo palestinese e in terra palestinese”; ha gridato contro “l’oppressione”; fra gli applausi degli arabi presenti ha definito Al Quds (La Santa, il nome musulmano di Gerusalemme, N.D.R) parte della nazione islamica, capitale eterna dello stato palestinese guidato da Yasir Arafat”; ha ricordato che «la giustizia è un dovere verso gli amici e i nemici». Ha invitato cristiani e musulmani a cooperare; ma quando si è trattato di annaffiare un olivo in segno di pace, se ne è andato.
Giovanni Paolo II celebrò una messa al Cenacolo; e allora c’era la speranza che quei locali potessero tornare di proprietà dei francescani. Fallace, come molte altre legate a quella terra e quel Paese. Era dal 1583 che non vi si celebrava la messa. Giovanni Paolo II era molto emozionato. E poi Korazym, il monte delle Beatitudini, e Nazareth; un pellegrinaggio sempre punteggiato qua e là da dichiarazioni polemiche relative alla Shoah, al fatto che papa Wojtyla non chiese scusa per la Shoah, a Pio XII…E per la prevedibile violazione del riposo sabbatico di quanti accompagnano il Papa in Galilea. E infine, si è giunti al gran giorno.
Il pellegrinaggio del Papa si è concluso, come non poteva non essere, nella città che porta impressa nelle pietre la sua santità, benedizione e condanna allo stesso tempo. E si è concluso davanti alle pietre. Alla pietra della Moschea della Roccia, che il Papa non ha potuto vedere, la Roccia su cui Abramo stava per sacrificare Isacco, e da cui, nel giorno del Giudizio, suoneranno le trombe, secondo l’islam; alla pietra del Muro del Pianto, dove Giovanni Paolo II ha lasciato una richiesta di perdono; e alle pietre del Santo Sepolcro: il masso dove fu piantata la croce, la lastra dell’unzione su cui fu deposto il corpo di Gesù, e la tomba. Il Pontefice si è inginocchiato alla Pietra dell’Unzione; ma ha soprattutto forzato il suo povero corpo stanco e malato a piegarsi, per entrare nel cubicolo che protegge da secoli il Sepolcro, e poggiare due volte le labbra sulla pietra “della tomba vuota, testimone silenziosa dell’evento centrale della storia umana – ha detto -. Con la Chiesa in ogni tempo e in ogni luogo, anche noi rendiamo testimonianza”.
Il cuore del pellegrinaggio giubilare del Papa è raggiunto, il suo desiderio compiuto. A Gerusalemme splendeva il sole, dopo una settimana di vento, freddo e pioggia. Il Pontefice ha iniziato il suo giro nella Città Vecchia, alla Porta di Giaffa, e subito si è recato al Patriarcato armeno, dove il patriarca Manoukian gli ha mostrato gli oggetti religiosi salvati durante il Genocidio del 1915, il primo del secolo, e che per motivi di “realpolitik” nei confronti della Turchia il governo di Israele non riconosce. Per l’occasione i muri del quartiere erano tappezzati di manifesti che ricordavano i massacri, ancora oggi negati dagli eredi dei responsabili. Poi è salito alla spianata delle moschee; e proprio in quel momento si è levata in volo, sopra la cupola della Roccia scintillante nel sole una grande bandiera palestinese, portata da un grappolo di palloncini. La spianata delle Moschee è a un tiro di pietra dal Muro Occidentale, ma il giro del Papa, in una grossa vettura chiusa, è stato più lungo. Lo spazio davanti al muro era stato diviso in tre parti: una per le donne, una centrale per gli uomini, e una terza per il Papa. Il rabbino del luogo, Michael Melchior, che è anche Ministro per la Diaspora, lo ha ricevuto ricordandogli l’Inquisizione e la Shoah, e in un tono di voce altissimo, ha parlato di pace. “Siamo tornati alla nostra eterna terra e capitale. Diamo il benvenuto qui alla vostra visita come a un impegno da parte della Chiesa cattolica a terminare gli anni di odio, umiliazione e persecuzione del popolo ebreo. In nome del governo di Israele e del popolo ebraico siamo qui oggi a gridare con la più forte e la più chiara delle voci. Mai più! Mai più possiamo pervertire i sublimi valori della religione per giustificare la guerra! Mai più dobbiamo invocare il nome di Dio mentre colpiamo le creature del Signore create a sua immagine! Diciamo mai più, perché questo giorno comincia una nuova era”.
Mentre un ragazzo del “Kach”, il movimento iper-ortodosso, riccioli e cappello nero gridava: “Il Monte del Tempio è nostro”, e veniva portato via di peso dagli agenti, il Papa si avvicinava al Muro del Pianto, e leggeva sottovoce un foglio, per poi appoggiarlo fra le pietre, come fanno i fedeli ebrei. “Dio dei nostri padri – questa era la preghiera -, tu che hai scelto Abramo per portare il tuo nome fra le Nazioni, siamo profondamente rattristati da coloro che nel corso della storia hanno provocato sofferenze a questi tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in una genuina fratellanza verso il popolo dell’Alleanza”. Poi, infine, il Santo Sepolcro. Una visita alla Tomba insieme ai patriarchi, che papa Wojtyla ha voluto replicare da soli, nel pomeriggio. Un fuoriprogramma sbocciato dal cuore e dalla fede di Karol Wojtyla.
A cura della Redazione Papaboys fonte vaticaninsider.lastampa.it / Vatican.va
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