Categorie: Finis Mundi

Quel saluto a Fidel e le speranze della Chiesa

Spazi, mezzi di trasporto, accesso ai mezzi di comunicazione: questo i vescovi cubani sperano sia il «regalo» che lascia la visita di Francesco. Non sono invece in programma incontro con i dissidenti, anche se rimane un barlume di speranza per la possibilità di un saluto a margine di uno degli eventi pubblici di questi giorni

Il saluto che Francesco ha indirizzato a Fidel Castro, chiedendo nel suo primo discorso pubblico al fratello Raul di trasmettergli i «sentimenti di speciale considerazione e rispetto» del Papa, sarà probabilmente risultato indigesto a molti dei dissidenti cubani. Nelle prossime ore è previsto anche l’incontro a tu per tu, come avvenne con Benedetto XVI. Ma tre anni fa era stato il «leader maximo» a recarsi nella nunziatura dove risiedeva il Pontefice, mentre stavolta sarà Papa Bergoglio a varcare la soglia della casa-clinica dove si trova Fidel, che rispetto al 2012 ha molte meno possibilità di muoversi.

Com’è noto, non sono invece previsti da programma incontri di Francesco con i dissidenti, come peraltro avvenne durante la visita di Giovanni Paolo II e quella di Papa Ratzinger. A Cuba non è però ancora tramontata la speranza che un piccolo saluto informale possa aver luogo, a margine di uno degli appuntamenti pubblici previsti in questi giorni: non un atto politico, ma un segno di vicinanza a tutti i cubani, che non potrà avvenire se non con il consenso, anche soltanto tacito, del governo castrista che ne uscirebbe in realtà rafforzato. Eventualità considerata difficile, ma non del tutto impossibile, in linea la svolta iniziata con il riavvicinamento agli Stati Uniti. Francesco ha già ricevuto in Vaticano la vedova di Oswaldo Payá, morto in un sospetto incidente d’auto nel luglio 2012.

Incontri con i dissidenti in Paesi governati da partiti unici o da dittatori, sono particolarmente difficili durante le visite papali. Un episodio rimasto famoso aveva riguardato il viaggio di Giovanni Paolo II nel Paraguay ancora governato dal dittatore Stroessner. Era il 1988 e Karol Wojtyla, secondo un programma concordato in precedenza con il governo, doveva incontrare in un piccolo stadio i «constructores de la sociedad». Mentre il Papa aveva già iniziato il viaggio – il Paraguay era l’ultima tappa di un percorso che avrebbe toccato prima l’Uruguay, la Bolivia e il Perù – giunse la notizia che Stroessner aveva cancellato d’autorità l’appuntamento dall’agenda prestabilita, adducendo problemi di «sicurezza» del Pontefice. Dopo aver ricevuto la notizia, l’allora direttore della Sala Stampa vaticana, Joaquín Navarro Valls, fu autorizzato ad annunciare che, se non fosse stato ripristinato l’incontro come da programma ufficiale, l’aereo papale non sarebbe mai atterrato in Paraguay: da Lima avrebbe ripreso direttamente la via per Roma. Il dittatore paraguayano rimise il calendario l’appuntamento.

Come avvenuto dopo le visite papali del 1998 e del 2012, anche questa volta la Chiesa cattolica attende al governo dell’isola caraibica segnali positivi e passi concreti, sulla scia del disgelo con Washington propiziato dalla diplomazia vaticana e che ha visto Francesco fare da garante. Il viaggio di Giovanni Paolo II fece ritornare il Natale festa civile, quello di Benedetto portò al riconoscimento pubblico del Venerdì santo. Questa volta i vescovi del Paese sperano in una maggiore disponibilità di spazi, di mezzi di trasporto e anche di accesso ai mezzi di comunicazione.

Un grande tema al centro del dibattito politico cubano, come pure delle trattative con gli Stati Uniti, riguarda l’embargo ancora vigente. Il governo dell’Avana attribuisce a queste restrizioni le difficoltà economiche e molti dei problemi che vive la popolazione del Paese. È noto che la Santa Sede da anni chiede che venga tolto. Francesco e i suoi collaboratori rinnoveranno questa richiesta durante gli incontri a tu per tu negli Stati Uniti. La fine delle sanzioni migliorerebbe le condizioni di vita della popolazione dell’isola caraibica, togliendo anche allo stesso governo cubano la possibilità di attribuire ogni problema del Paese all’embargo degli «yankee».

Di Andrea Tornielli per Vatican Insider (La Stampa)

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