Intervista con il gesuita padre Guillermo Ortiz, suo allievo dal 1977: «L’80 per cento di quello che dice il Papa sono esperienze vissute: quando lo ascolto spesso posso fare il collegamento con situazioni concrete. Non è un teorico, è un pratico. E sa imparare dalla fede del santo popolo di Dio»
«L’80 per cento di quello che dice il Papa sono esperienze vissute: quando lo ascolto spesso posso fare il collegamento con situazioni che abbiamo vissuto. Non è un teorico, è un pratico. E sa imparare dalla fede del santo popolo di Dio». Padre Guillermo Ortiz, è un gesuita argentino che lavora a Radio Vaticana: sta seguendo il viaggio di Francesco in Messico, lo ha avuto come rettore e direttore spirituale e ricorda come al Collegio Massimo il futuro Pontefice parlasse di spiritualità e della propria vita di fede dando da mangiare ai maiali. Con Vatican Insider parla delle esperienze vissute con l’allora rettore Bergoglio e spiega il perché sia così importante, per lui, la devozione popolare.
Padre Ortiz, qual è stato finora il momento più importante del viaggio?
«Credo la preghiera di fronte alla Madonna di Guadalupe. È importantissima la devozione del Papa per Maria. Si devono rileggere i leggere i discorsi dei primi due giorni: nei testi e nelle parole di Francesco viene riconosciuta la grande importanza della fede popolare, l’importanza del popolo. Nel Catechismo si trova l’infallibilità papale sui temi di fede e morale, ma si ricorda poco che sempre nel Catechismo c’è anche l’infallibilità del popolo di Dio nel suo modo di esprimere la fede. Parlando ai vescovi del Messico il 13 febbraio, il Papa ha fatto una sorta di movimento pendolare, come quello dell’ecografia. Ha descritto la Madonna e dopo ha parlato del popolo, con il cordone ombelicale della religiosità popolare. Ha invitato i vescovi a inchinarsi sul grembo della fede del popolo. La Madonna che è grembo del Figlio di Dio e il santo popolo fedele di Dio».
Il Papa «impara» dalla fede della gente?
«Lo ha detto prima di partire per il Messico che veniva per imparare. Il Papa è un figlio della Madonna ma anche un figlio del popolo di Dio. Lui sa che Dio agisce nel popolo, conosce il sensus fidei del popolo, il popolo povero che non ha niente».
Nell’omelia della messa nella basilica di Guadalupe Francesco ha citato un inno liturgico: «Guardarti, Madre; contemplarti appena, il cuore tacito nella tua tenerezza…».
«È un testo a cui il Papa è profondamente legato. C’è nel Breviario. Lui lo aveva fotocopiato e ritagliato, e me l’aveva regalato, lasciandomelo come consiglio spirituale, come preghiera da ripetere: semplicemente essere insieme, contemplando lo sguardo di Maria, mettendo davanti a lei quello che abbiamo nel cuore».
A quando risale la sua conoscenza con Bergoglio?
«Sono argentino di Cordoba, l’ho incontrato nella mia città nel luglio 1977, avevo 17 anni e volevo farmi gesuita. Andai a parlargli perché lui era il Provinciale, cioè il superiore dei gesuiti in Argentina. Dissi: “Voglio essere gesuita”. Lui mi ascoltò. È importante per lui ascoltare. Poi mi disse: “Va bene, vedremo fra sei mesi se hai ancora quest’idea”. Arrivai al Collegio Massimo nel 1981. Lui nel frattempo ne era diventato rettore, dopo il suo mandato di Provinciale. Fin dal primo giorno di noviziato lavoravo nel quartiere e lui ha voluto che un edificio che serviva da deposito per gli animali, fosse trasformato in parrocchia. Ne ricavammo una chiesa. Mi ha inviato a lavorare per strada e mi ha seguito da vicino».
Com’era padre Bergoglio da rettore? È vero che vi abituava a fare i lavori più umili?
«Sì, è vero. Ma non si poteva fare diversamente. Aveva lavorato molto per le vocazioni, c’erano tanti studenti e non avevamo di che sostenerci, non c’erano borse di studio. Non avevamo soldi per il cibo. Così Bergoglio ha comprato un paio di mucche, di maiali, di pecore, e nei primi anni abbiamo dovuto far crescere questo bestiame. Poi la carne… ci usciva dalle orecchie. Noi dovevamo curare questi animali, e questo non piaceva ad alcuni di noi che erano “delicatini”. Facevo la pulizia dei maiali, cioè lo stesso lavoro che ha fatto il Figliol prodigo prima di tornare dal Padre. Bergoglio ci dava l’esempio. Se stavamo parlando, per verificare il mio cammino spirituale, e poi arrivava l’ora di fare la lavatrice, andavamo insieme e lui metteva tutta la biancheria nella grande macchina. Toccava a lui mettere dentro gli abiti sporchi, noi poi li mettevamo a stendere. Lui stesso passava a dare da mangiare ai maiali. E magari lo faceva mentre continuava a parlare con qualcuno di noi di spiritualità. Lui non fa differenza tra teoria e pratica. È stato esigente con noi, ma noi dovevamo essere “provati”. Dovevamo imparare con sacrificio. La formazione è anche questo».
Era un modo per essere più partecipi della realtà della gente comune?
«Ricordo che nei suoi discorsi formativi, lui ripeteva sempre che per noi che facciamo voto di povertà, questo doveva significare anche lavorare. Diceva: la povertà è lavoro. Un povero deve lavorare e faticare. Noi al Collegio Massimo eravamo a 60 chilometri da Buenos Aires: la gente viaggiava due ore per raggiungere la capitale e poi altre due ore di ritorno, più 8,10,14 ore di lavoro. Lavorare e fare fatica aiutava nel senso della realtà e ti faceva toccare le piaghe della gente. È un senso della realtà, questo, che è un dono di Dio. Non è un discorso che ti deve trasmettere o mettere nella testa. Una volta al Collegio Massimo venne una donna che aveva freddo e cercava una coperta. Gli dicemmo che non ne avevamo in più. E la donna disse a Bergoglio: “Allora dammi la tua”. Lui andò a prenderla e gliela diede. Questa donna, diceva, gli aveva insegnato che si deve condividere e donare quello che si ha, non quello che si ha in più».
Ricorda qualche altro episodio?
«Io sono stato con lui fino al dicembre 1984, poi sono andato al Collegio del Salvador a Buenos Aires. E quando lui ha finito come rettore, nel dicembre 1985, senza più alcuna carica, è venuto ad abitare nel mio stesso collegio: non era più un formatore o un mio superiore. Abitavamo sullo stesso piano, eravamo a qualche porta di distanza e c’era in mezzo il bagno comune. Io andavo via presto la mattina per insegnare e tornavo tardi la sera. Una volta avevo dimenticato una cartella in stanza, e sono ritornato per un’altra porta, dal retro. A quell’ora non c’era nessuno. E ho visto Bergoglio pulire la tazza del water stando in ginocchio. Mai avevo visto qualcuno fare le pulizie in quel modo. Penso che lui non mi ha visto. È uno attento a ciò di cui l’altro ha bisogno, attendo alle necessità di tutti. Ricordo ad esempio le attenzioni che riservava ai padri più anziani, come ascoltava… Lui è un uomo per gli altri, non fa riferimento a se stesso. L’80 per cento di quello che dice il Papa sono esperienze vissute: quando lo ascolto posso fare il collegamento con situazioni concrete. Non è un teorico, è un pratico».
Redazione Papaboys (Fonte www.lastampa.it)