Ci sono frasi che, da sole, dicono più di mille biografie. Immagini, come istantanee dell’anima, capaci di illuminare il cuore dell’uomo, fino alla radice stessa del suo stare al mondo. Per Teresa di Calcutta papa Francesco ne ha trovata una bellissima, profondissima nella semplicità: «La sua santità è tanto vicina a noi, tanto tenera e feconda che spontaneamente continueremo a chiamarla madre».
Una mamma, verrebbe voglia di dire, piagata dalla sofferenza eppure capace di sorridere. Dagli occhi trasparenti come specchi, e che infatti non puoi evitare. Dalle mani ruvide di lavoro ma tenere e affettuose come nessun’altra. Mani che accarezzano, che chiamano, che si fondono una nell’altra per pregare, che ti toccano, il viso e l’anima. Perché se c’è un modo per riassumere la santità di Madre Teresa è parlare della sua vicinanza, fisica oltreché spirituale, ai rifiutati, ai disprezzati, a quelli che nessuno vuole.
La santa di Calcutta non si è limitata a parlare dei poveri o a chiedere politiche antimiseria, ma si è chinata sugli ultimi, li ha soccorsi, li ha abbracciati. Li ha toccati. Fino a mescolare le loro lacrime con le sue, fino a confondere la sua testimonianza d’amore con il loro grido di sofferenza. Per questo addolora, e non poco che oggi proprio quell’atteggiamento le venga mosso a rimprovero, a colpa, a macchia infamante. Soprattutto sui social, ma non solo, la si accusa di avere usato i miserabili come vetrina mediatica mentre avrebbe dovuto pensare a curarli, e guarirli.
Ma la requisitoria si fonda su un assunto sbagliato, che cioè la gratuità non esista, il pubblico ministero non ha tenuto conto di come la carità possa avere tante facce quante sono le donne e gli uomini che popolano il mondo. Madre Teresa non era un medico, non ha fondato ospedali dove semmai indirizzava chi poteva. La sua vocazione era il Vangelo di Gesù, era raccogliere i più poveri tra i poveri per farli sentire amati, per nutrirli, per togliere loro di dosso la puzza dell’abbandono, per accompagnarli nella loro fine altrimenti solitaria, fino a fargli dire come quella donna: «Sono vissuta come una bestia e ora muoio come un angelo».
E chissà, ma è molto più di un dubbio, che alla base dell’accusa non ci sia proprio, tragico paradosso, la difesa della vita più debole, cioè quella rifiutata prima ancora di vedere la luce. Madre Teresa infatti aveva una colpa imperdonabile, considerava l’aborto un male, si è impegnata fino all’ultimo dei suoi giorni nel sostenere che «chi non è ancora nato è il più debole, il più piccolo, il più misero».
Oggi giorno – disse a Oslo ricevendo il Nobel per la pace – «il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa». Parole inaccettabili in chi si vorrebbe icona di una Chiesa ridotta al rango, e lo si dice con il massimo rispetto, di una tra le tante agenzie di assistenza sociale. Autorizzata a usare il vocabolario del cosiddetto progressismo fino a quando non tocca la corda dell’etica, della morale legata a filo doppio con le ragioni del potere. Non solo economico. Eppure furono proprio le suore di Madre Teresa ad accettare il rischio di farsi carico dei malati di Aids quando si aveva paura persino a sfiorarli. Sono ancora loro, oggi, a soccorrere le vittime della tratta, a prendere in braccio i bambini deformi, a soccorrere i vecchi abbandonati per strada, a liberarli dall’angoscia, oltreché dai pidocchi. Sapendo che in cambio potrebbero non ricevere neppure un ‘grazie’. «È molto importante capire che l’amore per essere vero, deve fare male – disse ancora Madre Teresa a Oslo quell’11 dicembre 1979 –. Ha fatto male a Gesù amarci, gli ha fatto male».
Fino ad accettare offerte, ed è la seconda grande accusa mossa alla religiosa albanese, da chi ha le mani sporche, dittatori sanguinari piuttosto che discussi miliardari. «Chiedere l’elemosina, quando è fatto per Cristo, è bellissimo», spiegava Madre Teresa condensando in quell’affermazione, lei che viveva di sola carità, la sua fiducia totale nella Provvidenza. Cioè il filo rosso che lega insieme la storia della santità sociale di ogni tempo. Che trova radice nella preghiera, nel contatto quotidiano con l’Eucaristia, nella forza di alzare gli occhi al cielo anche quando pensiamo di non averne diritto. Persino nella notte oscura della fede, anche di fronte alla più inspiegabile delle sofferenze. Proprio come una madre cresciuta alla scuola della croce, che sa trovare nel Vangelo della misericordia la luce per illuminare le tenebre degli ultimi. Il sale per dare sapore alla sua ricetta di vita, fondata su un unico ingrediente: «solo l’amore», compreso quello povero, svilito, disprezzato dai grandi della terra, «salverà il mondo».
Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/Riccardo Maccioni)