Ricevendo i settemila bambini della «Fabbrica della pace» e intavolando un dialogo con loro, Papa Francesco è tornato a parlare dei tanti interessi economici che stanno dietro alle guerre.
«Perché tante persone potenti non vogliono la pace? Perché vivono delle guerre, l’industria delle armi è grave! I potenti guadagnano la vita con la fabbrica delle armi e vendono le armi a questo e quel paese: è l’industria della morte, ci guadagnano».
La preoccupazione per il commercio delle armi e per l’aumento delle spese militari non è una novità nel magistero papale. Basta citare soltanto le recenti parole di Benedetto XVI contenute nel Messaggio per la Giornata mondiale della Pace 2006: «Non si possono non registrare con rammarico i dati di un aumento preoccupante delle spese militari e del sempre prospero commercio delle armi, mentre ristagna nella palude di una quasi generale indifferenza il processo politico e giuridico messo in atto dalla Comunità Internazionale per rinsaldare il cammino del disarmo. Quale avvenire di pace sarà mai possibile, se si continua a investire nella produzione di armi e nella ricerca applicata a svilupparne di nuove?».
Non c’è dubbio però che Francesco abbia toccato con più insistenza questo tema, proponendo così uno sguardo che sfugge alle semplificazioni ideologiche che accomunano sia le più avanzate espressioni del fondamentalismo islamico, sia le analisi di certi think tank occidentali.
Domenica 2 giugno 2013, Papa Bergoglio riceveva a Santa Marta tredici soldati italiani feriti durante le missioni di pace, la maggior parte dei quali avevano prestato servizio in Afghanistan. Erano accompagnati dai loro familiari e dai parenti di altri ventiquattro militari morti durante le operazioni di peacekeeping. Durante l’omelia della messa celebrata per loro, Francesco, riferendosi «ai grandi della Terra» e all’illusione di chi pensa di risolvere i «problemi locali e crisi economiche» attraverso la guerra, affermava: «Perché? Perché i soldi sono più importanti delle persone per loro! E la guerra è proprio questo: è un atto di fede ai soldi, agli idoli, agli idoli dell’odio, all’idolo che ti porta a uccidere il fratello, che porta a uccidere l’amore».
L’8 settembre 2013, all’indomani della veglia per la pace in Siria che aveva registrato una grande partecipazione in tutto il mondo, con adesione alla preghiera e al digiuno nel momento in cui si prospettava un intervento armato occidentale contro il regime di Assad, Francesco all’Angelus pronunciava parole inequivocabili contro il business delle armi e i trafficanti di morte. Ammoniva quei potenti della terra che stanno giocando la loro partita militare e commerciale sulla pelle delle popolazioni sofferenti. Scegliere il bene «comporta dire no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve, alla violenza in tutte le sue forme, alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale». Improvvisando, il Papa aggiungeva una frase eloquente: «Sempre rimane il dubbio: questa guerra di là, quest’altra di là – perché dappertutto ci sono guerre – è davvero una guerra per problemi o è una guerra commerciale per vendere queste armi nel commercio illegale?».
Nell’intervista con il giornalista Henrique Cymerman, pubblicata sul quotidiano catalano «La Vanguardia» il 12 giugno 2014, Francesco affermava: «Scartiamo un’intera generazione per mantenere un sistema economico che non regge più, un sistema che per sopravvivere deve fare la guerra, come hanno fatto sempre i grandi imperi. Ma, visto che non si può fare la terza guerra mondiale, allora si fanno guerre locali. E questo cosa significa? Che si fabbricano e si vendono armi, e così facendo i bilanci delle economie idolatriche, le grandi economie mondiali che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro, ovviamente si sanano».
Una settimana dopo la diffusione dell’intervista, L’«Economist» criticava Francesco paragonandolo a Lenin. Nel mirino del settimanale londinese finivano le affermazioni sulle economie idolatriche che si alimentano con le guerre. «Dichiarando un collegamento diretto tra capitalismo e guerra – scriveva l’Economist – (il Papa) sembra prendere una linea ultra-radicale: una linea che – consapevolmente o meno – segue quella proposta da Vladimir Lenin nella sua analisi di capitalismo e imperialismo e di come siano stati la causa dello scoppio della Prima guerra mondiale, un secolo fa. Ci sono molti contro-argomenti: la storia è piena di esempi di forme di potere che hanno generato violenza in modo ancora più evidente di quanto non abbia fatto il capitalismo, dal feudalesimo ai regimi totalitari, e pensatori come Joseph Schumpeter e Karl Popper hanno affermato con forza che il capitalismo può consolidare la pace offrendo metodi non violenti per soddisfare i bisogni umani».
Francesco tornava a parlare delle guerre e degli interessi economici che le alimentano il 13 settembre 2014, in occasione della messa celebrata al sacrario di Redipuglia, per il centesimo anniversario dell’inizio della Prima Guerra mondiale. «Qui e nell’altro cimitero – aveva detto il Papa – ci sono tante vittime. Oggi noi le ricordiamo. C’è il pianto, c’è il lutto, c’è il dolore. E da qui ricordiamo le vittime di tutte le guerre. Anche oggi le vittime sono tante… Come è possibile questo? È possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante! E questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi, hanno scritto nel cuore: “A me che importa?”».
Di Andrea Tornielli per Vatican Insider (La Stampa)
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