Sancta Sedes

Questa mattina Papa Francesco si è recato all’Università di Roma Tre; in dialogo con gli studenti

Questa mattina Papa Francesco si è recato all’Università di Roma Tre. Si tratta della sua prima visita in una università statale della capitale. Roma Tre è frequentata da circa 40mila studenti: era stata già visitata da Giovanni Paolo II nel 2002. Il Papa ha ringraziato di averlo invitato a visitare l’università più giovane di Roma, augurando ogni bene per il lavoro e la missione di questo Ateneo.

“L’istruzione e la formazione accademica delle nuove generazioni – ha detto – è un’esigenza primaria per la vita e lo sviluppo della società”. Quindi ha consegnato il testo preparato e ha risposto alle domande rivoltegli da quattro studenti: “Questo discorso – ha detto – è una risposta pensata, riflettuta sulle quattro domande, ma io vorrei rispondere un po’ spontaneamente, perché mi piace di più così!”.
Giulia, 25 anni, nata a Roma, laureata in Scienze Politiche Relazioni Internazionali a Roma Tre, attualmente frequenta l’ultimo anno della laurea magistrale in Economia dell’Ambiente e dello Sviluppo. E’ rappresentante degli studenti nel Consiglio d’Amministrazione dell’ateneo. Questa la sua domanda: «Santo Padre, secondo Lei, quali possono essere le “medicine” per contrastare le manifestazioni di un agire violento, purtroppo sempre presenti nella storia dell’umanità?».
“Tu – risponde il Papa – hai parlato dell’agire violento, della violenza. Ma pensiamo al linguaggio: la tonalità del linguaggio è salita, tanto. Oggi si parla per strada, a casa, si grida, anche si insulta con una normalità … c’è anche la violenza nell’esprimersi, nel parlare. E questa è una realtà che tutti vediamo, no? Se c’è qualcosa sulla strada o qualche problema lì, prima di domandare cortesemente: ‘Ma, cosa è successo?’, ma, un insulto e poi si domanda il perché. E’ vero, c’è un’aria di violenza anche nelle nostre città; anche la fretta, la celerità della vita ci fa violenti a casa. Tante volte dimentichiamo – a casa – di dare il buongiorno: ‘Ciao, ciao’, questi saluti anonimi … La violenza è un processo che ci fa ogni volta più anonimi: ti toglie il nome. Anonimi gli uni verso gli altri. Ti toglie il nome e i nostri rapporti sono un po’ senza nome: sì, è una persona quella che ho davanti, con un nome, ma io ti saluto come se tu fossi una cosa. Ma questo che noi vediamo qui, cresce, cresce, cresce e diviene la violenza mondiale. Nessuno, oggi, può negare che stiamo in guerra, e questa è una terza guerra mondiale a pezzetti, ma c’è. Bisogna abbassare un po’ il tono e bisogna parlare meno e ascoltare di più. Ci sono tante medicine, contro la violenza, ma la prima, prima di tutto è il cuore: un cuore che sa ricevere, ricevere cosa pensi tu. E prima di discutere, dialogare. Se tu pensi differente da me, ma dialoghiamo! Il dialogo avvicina, non solo avvicina le persone: avvicina i cuori. Con il dialogo si fa l’amicizia e si fa l’amicizia sociale. Quando io prendo il giornale e sul giornale vedo che questo insulta quello (…) dico: ‘Ma in una società dove la politica si è abbassata tanto – sto parlando della società mondiale, eh?, non di qui: di tutto, di tutto! – si perde il senso della costruzione sociale, della convivenza sociale e la convivenza sociale si fa con il dialogo. E per dialogare, primo: ascoltare. Tante volte – ma, questo si vede tanto quando ci sono campagne elettorali, discussioni in tv – che prima che l’altro finisca di parlare, la risposta (…) ma aspetta, ascolta bene cosa dice, poi pensa e rispondi. Ascoltare bene. E se io non capisco quello che tu vuoi dirmi, domandare: ‘Ma con questo che hai detto, cosa vuoi dire? Perché non ho capito bene’. La pazienza del dialogo. E dove non c’è dialogo, c’è violenza. Ho parlato di guerra: è vero, stiamo in guerra. E’ vero. Ma le guerre non incominciano là: incominciano nel tuo cuore, eh?, nel nostro cuore. Quando io non sono capace di aprirmi agli altri, di rispettare gli altri, di parlare con gli altri, di dialogare con gli altri: lì incomincia la guerra. Quando non c’è dialogo a casa, per esempio: quando invece di parlare, si grida e la tonalità è che si grida. O si sgrida. O, quando siamo a tavola, invece di parlare, ognuno con il suo telefonino, sta parlando, sì, ma con altri. E quel germe è l’inizio della guerra. Perché non c’è il dialogo. E questo credo che sia il fondamento. E questo dice tanto all’università, perché ho sentito quello che diceva il signor rettore: l’università è l’universo, è proprio il posto dove si può dialogare, dove c’è posto per tutti. Quello che la pensa così, quello che la pensa in quell’altro modo, quello che la pensa nell’altro modo. Dialogare è proprio di un’università. Una università dove soltanto si va a scuola, si ascolta il professore, la professoressa e poi torno a casa, questa non è una università. Una università deve avere questo lavoro artigianale del dialogo. Sì, sentire le scuole, sentire le lezioni, sentire la saggezza dei professori, sì; ma il dialogo, il dialogo, la discussione: questo è importante! E io parlo di una cosa che non so se in Italia c’è, non so. Ma so che c’è in altre parti. Anche io ho visto. Le università di élite, che sono generalmente cosiddette università ideologiche, dove tu vai, ti insegnano questa linea, soltanto, di pensiero, questa linea ideologica e ti preparano per essere un agente di questa ideologia. Quella non è università: quella non è università. Dove non c’è dialogo, dove non c’è confronto, dove non c’è ascolto, dove non c’è rispetto per come la pensa l’altro, dove non c’è amicizia, dove non c’è la gioia del gioco, lo sport, tutto quello, non c’è università. Tutto insieme. Ma, io vado all’università per imparare: per imparare. Ma sì: ma imparare, io dirò: per vivere, per vivere il vero, cercare il vero, per vivere il buono, la bontà, cercare la bontà, per vivere il bello, cercare la bellezza. Verità, bontà e bellezza. Ma questo si fa insieme, tutti insieme, e questo è un cammino universitario che non finisce mai. Per questo è tanto importante la presenza degli antichi alunni dell’università nel corpo universitario, perché i nuovi, quelli che stanno facendo il corso adesso, possano avere il dialogo con loro. Quando si fa questo, l’agire non è violento, è bello: è bellissimo. E’ la gioia di fare una strada insieme, senza gridare, senza insulto, senza … e cercando sempre la verità, la bontà, la bellezza. Non so se ho risposto …
Niccolò Antongiulio Romano, 23 anni, nato a Roma, ha ricevuto un’istruzione liceale cattolica al Collegio San Giuseppe – Istituto De Merode. Attualmente frequenta il quinto anno di corso al Dipartimento di Giurisprudenza ed è prossimo al conseguimento della laurea. Sta lavorando a una tesi che verterà sulla disciplina giuridica delle energie rinnovabili. Questa la sua domanda: «Santo Padre, a suo avviso, qual è il valore e il significato di Roma per il suo Vescovo, un Papa che viene “dall’altra parte del mondo”? La nostra città è ancora la communis patria, e cosa dovrebbe fare un’Università come la nostra per evidenziare questo ruolo?»
Riccardo Zucchetti, 23 anni, nato a Roma, ha conseguito il diploma di maturità al liceo scientifico “Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II” e si è laureato nel 2016 in Ingegneria Elettronica a Roma Tre svolgendo un lavoro di ricerca sulle applicazioni di metamateriali. Attualmente frequenta, sempre a Roma Tre, il secondo anno del corso di laurea magistrale in Ingegneria delle Tecnologie della Comunicazione e dell’Informazione. Parallelamente agli studi accademici, è membro attivo della Pastorale Universitaria. Questa la sua domanda: «Santo Padre, come spesso Lei ci ha ricordato, stiamo vivendo non un’epoca di cambiamenti ma un vero cambiamento d’epoca, per il quale è necessaria una coraggiosa rivoluzione culturale. Secondo Lei, in un mondo globalizzato dove le informazioni più che confuse sono veicolate principalmente per mezzo di social network, in che modo possiamo prepararci a divenire operatori della carità intellettuale per contribuire ad un rinnovamento costruttivo della società?».
Il Papa risponde insieme alle due domande: “Riccardo, quando tu parlavi io ho preso quello dell’epoca di cambiamento, cambiamento di epoca, che è tanto importante. E’ vero che non cambiano le cose se è più moderno… no. L’epoca è diversa e noi dobbiamo prendere le cose come vengono. Se noi non impariamo, questo è il primo passo per la vita, se non impariamo a prendere la vita come viene, mai, mai impareremo a viverla! La vita somiglia un po’ al portiere della squadra che prende il pallone da dove lo buttano e la vita la si deve prendere da dove viene! Questo non è soltanto ‘Tempi moderni’ di Charlie Chaplin, è un’altra cosa. E’ un’epoca diversa, che viene da una parte che io non aspettavo, ma devo prenderla, come viene, senza paura. La paura è stata da detta da Nour, in un altro senso. Ma prenderla senza paura, la vita è così! E’ così. Un cambio di epoca. Cosa dovrebbe fare un’università come la nostra per evidenziare questo ruolo di città “communis patria”? Noi dobbiamo cercare sempre l’unità, l’unità che non è quel giornale, no… (ride). L’unità che è cosa totalmente diversa dell’uniformità. L’unità ha bisogno, per essere una, delle differenze: unità nella diversità. L’unità si fa con la diversità. Noi siamo in un’epoca, viviamo in un’epoca di globalizzazione e lo sbaglio è pensare la globalizzazione come se fosse un pallone, una sfera, dove ogni punto è a uguale distanza dal centro, non c’è differenza, tutto è uniforme. Questo punto è come questo, come questo… non c’è differenza e questa uniformità è la distruzione dell’unità perché ti toglie la capacità di essere differente. L’unità nelle differenze. Per questo a me piace parlare di un’altra figura geometrica, non la sfera: il poliedro. Sì, c’è una globalizzazione poliedrica, c’è un’unità, ma ogni persona, ogni razza, ogni paese, ogni cultura sempre conserva la sua identità propria. E questa è l’unità nella diversità che la globalizzazione deve cercare. L’unità di un’università va per quella strada: l’unità nella diversità. E quando si fa questo, si va per quella strada, le culture crescono e il livello culturale cresce perché è un dialogo continuo fra questo lato del poliedro e con questo, con questo, che sono uniti in un’unità. Credo che il pericolo di oggi – è un vero pericolo mondiale – è concepire una unità, una globalizzazione nella uniformità e questo distrugge.




No. La vera unità si fa nella diversità e così possiamo parlare di una communis patria, perché? Perché siamo accomunati ma ognuno è diverso, ognuno è distinto, anche nel mondo, tutti siamo distinti, tutti siamo diversi. E queste sono le due cose che vorrei dire sulle domande di Niccolò e Riccardo, cambiamento di epoca, globalizzazione, unità nella diversità e una carità intellettuale per contribuire a un rinnovamento costruttivo della società. Nella comunicazione – Riccardo parlava di network – è vero che c’è una celerità… Gli olandesi 40, 50 anni fa, avevano inventato una parola che a me piaceva tanto: “rapidazione”, è come la progressione geometrica nel tempo. Quello di Aristotele, no? Il movimento, quando arriva alla fine è più veloce, la legge della gravità e si va più rapido. E oggi la comunicazione è così, col pericolo di non avere il tempo di fermarsi per un’assimilazione, un pensare, un riflettere su… E questo è importante: abituarsi a questa comunicazione ma senza che questa rapidità, questa “rapidazione” – quella parola nuova – mi tolga la libertà di dire ‘No’. Abituarsi al dialogo a questa velocità. Tante volte una comunicazione così rapida, così leggera, può diventare liquida, senza consistenza e questo è uno dei pericoli di questa società – questa non è una parola mia, la “società liquida”, l’ha detta Bauman da tempo -, la liquidità senza consistenza. E noi dobbiamo prendere la sfida di trasformare questa liquidità in concretezza. La parola per me chiave per rispondere alla domanda di Riccardo Zucchetti è ‘concretezza’: contro la liquidità la concretezza. Anche pensiamo all’economia. Qual è il dramma oggi dell’economia? L’economia liquida. E quando c’è economia liquida, c’è mancanza di lavoro, c’è disoccupazione. Ho un amico, che è un imprenditore che è venuto dall’Argentina, mi raccontava che è andato a fare una visita a un altro amico che abitava nel nord dell’America, nel Canada, credo. E gli ha fatto vedere come faceva un’operazione di compravendita direttamente col computer, col network, e in 10 minuti ha trasferito capre, credo, che erano dell’America, all’Oriente e ha guadagnato 10 mila dollari. In 10 minuti, direttamente… Tutto liquido! E quando c’è liquidità nell’economia per esempio, non c’è lavoro concreto. Io vi faccio la domanda: la nostra cara madre Europa, l’identità dell’Europa – Nour ha parlato un po’ di questo – come si può pensare che Paesi sviluppati abbiano una disoccupazione giovanile così forte? Io non dirò i Paesi ma sì le cifre: giovani da 25 anni in giù in un Paese il 40 per cento senza lavoro; in un altro Paese vicino a questo il 47 per cento; in un altro Paese – sto parlando dell’Europa – 50; in un altro Paese più vicino sta quasi arrivando al 60. Questa liquidità dell’economia toglie la concretezza del lavoro e toglie la cultura del lavoro perché non si può lavorare, i giovani non sanno cosa fare. E io giovane senza lavoro perché non trovo… Girano, girano, li sfruttano qui, li sfruttano due, tre giorni … E non trovo… Alla fine l’amarezza del cuore dove mi porta? Alle dipendenze, le dipendenze hanno una radice lì. O mi porta al suicidio. Dicono quello che sanno, io non sono sicuro di questo, non sono sicuro, ma dicono che le vere statistiche dei suicidi giovanili non sono pubblicate, si pubblica qualcosa. Le vere statistiche, no. Questa mancanza di lavoro mi porta, mah, vado dall’altra parte e mi arruolo in un esercito terrorista, almeno ho qualcosa da fare e do senso alla mia vita… Terribile. E’ terribile. E questo è economia di mercato, economia …. Non so esattamente, io dirò ‘economia liquida e deve essere concreta e per risolvere i problemi economici, sociali, tutti i problemi, anche culturali: concretezza, concretezza. Altrimenti non si può. Poi c’è un’altra cosa che volevo dire su questo… Sì, l’università: devono essere qui, nel dialogo vostro con i professori e domandare e fra voi: perché questo? Anche cercare soluzioni da proporre ai problemi reali, contro questa cultura liquida.
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Fonte it.radiovaticana.va

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