Siamo arrivati su più o meno alle tre del mattino, si sentiva soltanto il rumore del generatore e quello del vento. Nient’altro. Abbiamo provato a chiamare, chiamare ma non ha risposto nessuno. E allora siamo rimasti in silenzio per qualche minuto per cercare di cogliere anche il più piccolo segnale dall’interno. Il risultato però è stato lo stesso. Solo il generatore e il vento».
l maresciallo capo Lorenzo Gagliardi ha 48 anni e dal 2008 comanda la stazione del soccorso alpino della guardia di finanza di Roccaraso, provincia dell’Aquila. È uno dei soccorritori che per primi, con gli sci da alpinismo ai piedi, hanno raggiunto l’hotel Gran Sasso Rigopiano, 1.200 metri di quota, diversi gradi sotto zero. Ore di fatica massacrante ad avanzare fra dune altissime di neve e poi un punto illuminato in mezzo al buio.
Quella luce in lontananza autorizzava a sperare.
«Sì, in effetti… Quando l’ho vista ho pensato: magari qualcuno ha trovato riparo proprio lì dov’è accesa, forse sono riusciti ad avere un po’ di calore. E invece quello era il vano caldaia e dentro non c’era nessuno. Evidentemente quando la valanga ha tagliato la corrente elettrica è scattato il generatore e per quello le luci erano accese».
Quanto ci avete messo a raggiungere l’hotel?
«Più o meno tre ore nella parte fatta con gli sci ai piedi. Eravamo rimasti bloccati a sette chilometri dall’hotel con la colonna mobile dei soccorsi perché la turbina che doveva aprire la strada ha trovato degli ostacoli, e comunque andava lentissima per la troppa neve. Quindi siamo andati avanti senza mezzi, eravamo una dozzina fra noi e i ragazzi del soccorso alpino civile».
Tre ore faticosissime.
«Siamo gente allenata. Quando hai un obiettivo ti guida l’adrenalina, la fatica è niente, non la senti. Il nostro obiettivo era arrivare il più presto possibile per cercare di salvare vite umane, quindi contava soltanto quello. Nel nostro lavoro salvare una vita è gratificante, è il massimo».
Com’è stato il percorso fra il blocco della colonna mobile e l’hotel?
«Dovevamo stare molto attenti a eventuali nuove slavine, dovevamo aggirare alberi caduti, c’era una bufera di neve fortissima. Insomma: era una situazione rischiosa ma non c’era una soluzione b».
Purtroppo non è servito a salvare nessuna vita umana.
In che condizioni erano?
«Non avevano ferite evidenti, ma avevano preso moltissimo freddo. Erano scioccati, preoccupatissimi. Il signore delle medicine era disperato, ripeteva che dentro c’era sua moglie, parlava di figli. Si gelava, quell’uomo affondava nella neve. Ho cercato di dargli un po’ di coraggio, per quel che ho potuto. Gli ho dato una pacca sulla spalla e gli ho detto: non puoi rimanere qui ancora al freddo, devi andare via, ti prometto che te la portiamo giù, la tua famiglia. L’ho visto così sgomento… L’altro signore, il dipendente dell’hotel, aveva sotto la valanga una sorella, credo. Lui è stato prezioso perché ci ha aiutato a capire com’era la struttura e dov’erano gli ospiti quando è successo tutto. Se il tempo è poco indicazioni come questa possono salvare la vita».
Cos’è rimasto del Rigopiano?
«Purtroppo non molto. L’hotel è in gran parte distrutto, crollato, specialmente nelle zone notte, nella hall, nella legnaia e negli spazi comuni ricreativi. Per entrare dove poi sono state recuperate le prime vittime abbiamo scavato un buco, una specie di tunnel verticale nella neve che in quel punto, cioè sopra il solaio della struttura crollata, era alta due-tre metri».
Sono le sette del pomeriggio, lei non è ancora rientrato e finora il suo turno è durato 24 ore.
«E che importa? In situazioni di emergenza pensi solo all’emergenza e vai avanti finché reggi. Certo, questo turno non si chiude come avrei voluto. Se avessi salvato qualcuno strappandolo alla neve e alle macerie sarebbe tutta un’altra storia…».
Fonte www.corriere.it/Giusi Fasano
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