La storia delle apparizioni di Fatima – il cui centesimo anniversario cadrà nel 2017 – è nota o, per chi non ne fosse al corrente, se ne trova sintesi nel sito ufficiale del Santuario o in vari altri siti internet. Qui vorrei soffermarmi un po’ su un particolare, credo poco conosciuto, che mi ha colpito.
Papa Francesco, il 13 maggio 2013, ha voluto consacrare il proprio pontificato alla Madonna di Fatima, nella sua festa e anniversario della prima apparizione ai tre pastorinhos portoghesi.
Francesco è anche il nome di uno di loro. O meglio, Francisco, di cognome Marto: fratello di Giacinta e cugino di Lucia, oggi Beato. Nato nel 1908, moriva neanche undicenne il 4 aprile 1919, colpito dalla “spagnola”.
Durante gli straordinari avvenimenti di Fatima Francisco rimase piuttosto in secondo piano rispetto alle compagne, anche perché vedeva la Madonna ma non ne udiva la voce. Semplice com’era, accettava le parole e preghiere che Lucia e Giacinta gli riferivano e, con fiducia, le poneva a fondamento della sua vita.
Lucia nelle sue Memorie (da cui attingo le citazioni che seguono) ricorda come fosse di carattere schivo e riservato, “più silenzioso” della sorellina, “di poche parole”. Inoltre era “sempre sorridente, sempre amabile e condiscendente” e “giocava con tutti i bambini, senza distinzioni”. Raro che facesse sentire la sua voce, piuttosto “faceva tutto quello che vedeva fare da noi e raramente suggeriva qualcosa”.
Dalle apparizioni in poi, e ancor più durante la malattia, il già schivo Francisco cercava ancor di più la solitudine: “Quando gli domandavano se voleva che qualche bambino rimanesse con lui a fargli compagnia, rispondeva di no: preferiva star solo”.
Ma perché questo suo estraniarsi da tutti, a volte persino dalla sorella e dalla cugina, che spesso lo sorprendevano “dietro un muro o una siepe, dove furtivamente si era nascosto”? La risposta è in questo breve dialogo:
Lucia: “Francisco, perché non dici a me e a Giacinta di pregare con te?”
Francisco: “Mi piace di più pregare da solo, per pensare e consolare il Signore che è tanto triste”.
E’ questo “consolare” il particolare che più mi colpisce nella spiritualità di questo bambino, che ricorda grandi mistici come Santa Gemma Galgani, San Pio da Pietrelcina o la Beata Anna Katharina Emmerick.
I veggenti di Fatima avevano avuto la visione dell’inferno il 13 luglio 1917 e la Madonna, che poi avrebbe affidato a Lucia la diffusione nel mondo della devozione riparatrice al Suo Cuore Immacolato, nel successivo mese di agosto diceva loro: “Pregate, pregate molto, e fate sacrifici per i peccatori”. Così i pastorelli cercavano, anzi si creavano continuamente occasioni in cui poter offrire sacrifici e rinunce con diverse intenzioni, in particolare la salvezza delle anime.
Lucia riferisce che “mentre Giacinta sembrava presa unicamente dal pensiero di convertire peccatori e liberare anime dall’inferno” pareva invece “che lui pensasse soltanto a consolare il Signore e la Madonna che gli erano parsi molto tristi”.
Francisco divenne in breve tempo profondamente innamorato di Colui che chiamava “Gesù nascosto”. Spesso sostava a lungo in solitudine davanti al Tabernacolo, fino a quando fu costretto a letto. E voleva letteralmente, materialmente, realmente “consolare” Gesù per la Sua tristezza a causa dei peccati degli uomini.
San Giovanni Paolo II, nell’omelia della Messa di Beatificazione di Giacinta e Francisco il 13 maggio 2000, ha ricordato che il pastorello “sopportò le grandi sofferenze causate dalla malattia, della quale poi morì, senza alcun lamento. Tutto gli sembrava poco per consolare Gesù; morì con il sorriso sulle labbra. Grande era, nel piccolo, il desiderio di riparare per le offese dei peccatori, offrendo a tale scopo lo sforzo di essere buono, i sacrifici, la preghiera”.
Indubbiamente fa riflettere. Siamo forse abituati a pensare a Dio più come all’Onnipotente che al Sofferente. Ci rivolgiamo a Lui, credo, più per essere consolati e aiutati che per consolarLo.
Ma Gesù crocifisso – e Lui solo, nessun altro nella storia – ci ha mostrato proprio questo inatteso volto di Dio: un Dio che soffre per gli uomini, perché li ama infinitamente. Diceva una grande anima: “Dio ha preferito un mondo di ribelli a un mondo di robot”. Infatti Dio ama e allo stesso tempo soffre per l’uomo perché gli ha lasciato la libertà. Di riconoscerlo come Padre oppure di dimenticarsene: come non pensare alla parabola del “figliol prodigo”?
Quale incredibile missione, allora, la vita umana: la creatura può consolare il suo Creatore. Ogni nostro atto, anche il più “inutile” umanamente parlando, ogni dolore, ogni sacrificio, in sintesi ogni piccola o grande “croce”, può così acquistare un senso e un valore inaspettato.
A questo punto mi si dirà: e lo Zecchino d’Oro cosa c’entra in tutto questo?
Giusto, rispondo subito perché è ora di concludere: una canzone del 2010, dal titolo “Forza Gesù”, ha delle parole molto curiose. La canta un bambino (si può ascoltare qui in basso) e la prima strofa suona così:
“Ogni sera quando prego nel lettino
Penso a quello che si vede da lassù,
Tutto il male che viviamo sulla terra,
Ogni lacrima che scende sale su.
Tu mi dici cosa mai può fare un bimbo,
Come può contare piccolo com’è.
Con l’amore penso si può fare tanto
Per esempio consolare un po’ Gesù”.
Proprio come Francisco.
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Articolo di Silvio