CONFERENZA ASIATICA – Si è voluto offrire una piattaforma di dialogo per i Paesi interessati a una moratoria sulle esecuzioni capitali (alla quale hanno aderito finora 114 nazioni). Il tutto nel contesto di un continente che detiene il primato dell’uso della pena capitale, con un dato complessivo del 2013 di almeno 4.010 esecuzioni – oltre 3mila nella sola Cina – contro le 3.879 del 2012
Ministri e delegati di livello governativo di quattordici Paesi asiatici – tra cui India, Sri Lanka, Cambogia, Mongolia, Vietnam, Laos, Indonesia e Filippine – insieme alla Conferenza Episcopale Filippina, ai funzionari pubblici, ai testimoni della lotta per la giustizia e per i diritti umani e ad almeno trenta sindaci di altrettante città che hanno aderito alla campagna “Città per la Vita”, promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, il 27 e 28 ottobre, hanno dato vita a Manila, nelle Filippine, alla Conferenza asiatica internazionale “Non c’è giustizia senza vita”.
La diffusione della pena di morte in Asia. Organizzata dal Dipartimento di giustizia delle Filippine e dalla Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con il Comune di Mandaluyong, la Conferenza – la prima di questo livello – ha avuto come obiettivo di offrire una piattaforma di dialogo per i Paesi interessati a una moratoria sulle esecuzioni capitali (alla quale hanno aderito finora 114 nazioni) e si è svolta nel contesto di un continente che detiene il primato dell’uso della pena capitale, con molti Paesi che ancora la applicano e con un dato complessivo del 2013 di almeno 4.010 esecuzioni – oltre 3mila nella sola Cina – contro le 3.879 del 2012. Si tratta di esecuzioni ufficiali, che non comprendono il dato di quelle che non emergono e che sono occultate.
I diritti umani nel Paese. In questo panorama, una delle eccezioni è costituita proprio dalle Filippine, dove nel 2006 l’allora presidente, Gloria Arroyo, abolì la pena capitale. Nello scorso mese di luglio, i vescovi filippini, in una nota, espressero “contrarietà assoluta, con voce piena, sul ripristino della pena di morte”, di fronte al tentativo di ripristinarla, in relazione all’aumento del numero di omicidi di persone impegnate nei diritti umani e nella società civile (più di 180 dal 2010 ad oggi). L’ultimo rapporto di Amnesty International registra migliaia di casi di gravi violazioni dei diritti umani rimasti irrisolti nel Paese. Riguardano anche i casi di coloro che nel periodo tra il 1972 e il 1981, quando era in vigore la legge marziale, si sono visti “negare giustizia, verità e riparazione”. A ottobre, il Governo filippino – che deve gestire una difficile fase di transizione verso la piena attuazione della democrazia – e il Fronte di liberazione islamica Moro (Moro Islamic Liberation Front – Milf) hanno firmato un accordo quadro, che ha gettato le basi per una pacifica risoluzione dopo decenni di conflitto armato a Mindanao, che non ha però affrontato in maniera soddisfacente la tematica dei diritti umani. Oltre a questa situazione, bisogna registrare due fatti: nel solo 2013, oltre una decina di attivisti politici e altri attivisti anti-minerari, i loro familiari e almeno sei giornalisti sono stati vittime di uccisioni illegali; è proseguita l’impunità per la tortura e per le sparizioni forzate, malgrado l’impegno del Governo, che ha costituito un comitato al fine d’indagare i casi più recenti di questi gravi reati. di Umberto Sirio per Agenzia Sir