Rispetto il suicidio di Genova, ma riesco a soffrire solo per chi rimane

Un altro suicidio. Un padre. Un padre per il figlio. Una questione di farmaci antitumorali: quelli che non servono solo in oncologia ma anche per le malattie autoimmuni. Per tutte le malattie che se non le fermi fanno male, proprio male. E costano tantissimo. Migliaia di euro a scatola. E di scatole ce ne vogliono tante. Tante al mese per tutta la vita. Il traffico di medicinali e l’associazione a delinquere erano i capi d’accusa del figlio del suicida.

Tutto da vedere. Tutto da provare. Tutto ancora da vivere. Ma è bastato per farlo decidere. Non a decidere come difendersi, cosa scrivere, cosa tentare nella difesa. No. A decidere per scrivere biglietti di commiato.Accusare la magistratura. E buttarsi giù da un ponte. Mi metto, anche se è impossibile – ma che altro fare? – nei panni del famoso pediatra, padre dell’indagato, ma, scusate, non ce la faccio. Per me, in questo momento della mia vita, i panni più difficili da indossare sono quelli di chi rimane. Panni stretti perché non sono della misura giusta di nessuno.

Nessuno riesce ad indossarli. Chi rimane, rimane nudo. Denudato all’improvviso con una violenza inaudita. Nudo davanti ad uno specchio che rimanda l’immagine di una vita che non si riconosce più. Il suicidio ti toglie uno dei pochi aspetti positivi del dolore: farci stringere a chi abbiamo accanto. Se chi mi è accanto se ne va, di nascosto, salutandomi come sempre, uscendo come sempre, e poi si ammazza, si rimane con le braccia vuote e in mano un biglietto che, fosse pure un poema, non spiega nulla. E così il dolore vince due volte. Vince doppio. Non diamogliela vinta.

Vorrei tirare fuori della poesia sulla misericordia di Dio ma sono prosaico e il mio Dio è di carne: prosaico pure lui. La sua misericordia prende tra le braccia ogni suicida e sono tanti. Ma c’è qualcuno che rimane. Ed è a chi rimane che va il mio dolore. Chi apre la porta dove pensava dormisse chi si è ucciso e ha aspettato ad entrare per non disturbare e per tutta la vita si dirà “se fossi arrivato prima, se avessi aperto, sfondato quella porta.” Chi ha telefonato e il cellulare era staccato e si è detto “non fare il solito esagerato, non c’è campo” ed è andato a dormire mentre l’amico, il fratello, il figlio, il padre si uccideva. Chi tutta la vita si dirà: perché? Perché non ho insistito? perché non capito? perché non sono corso? E arriva la telefonata:”Lei è il sig. Rossi? Sua figlia…”. E per tutta la vita leggerà e rileggerà quel biglietto che non dice nulla perché nulla c’è da dire. Voglio pensare a chi rimane. A chi rimane. Come quella madre di cui ho sentito. Figlio splendido senza problemi. Nel garage. Senza biglietto. Una vita rapita, sì: quella della madre però, non solo quella del figlio suicida.

Lo so. Non riesco ad essere delicato. Scusate, ma adesso mi viene da pensare che chi muore va nella misericordia di Dio e chi resta va a terra. Sì, come quel gioco scemo che facevamo a scuola. Tu ti siedi al tuo banco e qualcuno ti toglie la sedia da sotto. Solo che non è un gioco. Forse la vergogna, forse la paura, forse la rabbia, forse la disperazione, forse la solitudine. L’elenco può continuare. Ogni storia, ogni vita, ogni uomo, ha il suo elenco di emozioni sentinella. Sono quelle emozioni, brutte, forti, buie, che ci dicono: alza la testa, raddrizza le spalle, sto chiamando te. Sono le emozioni sentinella: dicono che arriva qualcosa che ha bisogno di un uomo, di una donna. E noi invece facciamo come se paura, vergogna, disperazione, e rabbia fossero nemici, nemici che hanno già vinto.

E allora ci suicidiamo, ce la togliamo noi la vita minacciata, e lo facciamo proprio quando era il momento di tirarla fuori. Ce lo diciamo da soli che è finita mentre tutto iniziava, e ci togliamo la vita. Come un eroe tragico. Ma di cosa ha bisogno un figlio che sbaglia, che è accusato di sbagliare? Di un padre eroe che si suicida o di un padre diga che trattiene l’ondata? Io, scusate, in questi momento della mia vita, non ce la faccio a pensare a quanto poteva essere disperato chi si suicida. Magari tra un po’ cambierò ma adesso penso e poi penso e poi ripenso alla violenza che subisce quel figlio che dice “mi era venuto a trovare ed era tranquillo.”

Spesso è così. Chi si uccide era tranquillo prima. Ad un certo punto on/off. Come fermare le nostre dita prima che facciano off? Ascoltandoci sempre. Dicendoci sempre la verità. Non è la “magistratura miope” che fa gettare da un ponte un padre che dovrebbe per il suo stesso nome – padre – custodire la vita del figlio. Anche e soprattutto di un figlio colpevole. Allora, se qualcuno che legge questo pezzo forse attraversato da pensieri di suicido – e a chi, in qualche modo, non è mai successo? – provi a pensare a chi rimane. Proviamo a pensare a chi rimane e forse quelle dita che vorrebbero spingere da on a off, possono tornare indietro, e ribadire “on”. On: sì, ci sono. Mi rimbocco le maniche e inizio la lotta, quella vera. Se mi suicido, a chi rimane non rimarrà nessuna risposta ma solo domande e sguardi di solitudine.

Di Don Mauro Leonardi

Articolo tratto da L’HuffingtonPost

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