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Roma, Dante e Cristo

Anno 1300, Roma: migliaia di pellegrini accorrono al primo Giubileo della Storia cristiana, col beneficio di lucrare l’Indulgenza plenaria. Tra questi il più illustre: Dante Alighieri…

Nel 1300 da sei anni sedeva sul trono di Pietro papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, nato intorno al 1235 ad Anagni, non lontano da Roma. Colto, forte e sicuro di sé. Non gli mancavano forse i difetti, ma aveva chiara la consapevolezza della sua altissima dignità di Vicario di Cristo sulla terra. Mentre lasciamo agli storici le dispute che lo riguardano, facciamo nostro quanto di lui disse il 1° settembre 1966 papa Paolo VI in visita ad Anagni: «Nessuno ebbe più di Bonifacio tanti nemici. Ma è stato il Papa che più degli altri ha affermato l’autorità del Romano Pontefice, la continuità che ad esso deriva dall’avere ereditato il potere che Cristo ha dato a Pietro e a tutti i suoi Successori. Egli svolse il suo mandato con forme di autentica luce. La lezione di questo Papa è il senso di appartenenza alla Chiesa, la comprensione degli obblighi di lealtà alla Gerarchia per ogni cattolico dal momento che appartiene a una società organizzata».

Il primo Giubileo

Dunque, anno del Signore 1300. Il 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro, Bonifacio VIII emanò la bolla Antiquorum docet con cui indiceva il Giubileo con l’Indulgenza plenaria ai pellegrini che in Roma avessero visitato le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo e le grandi Basiliche. Si rifaceva all’antica tradizione del popolo d’Israele (cf. Lv 26), e assecondava il grande movimento di preghiera e di rinascita spirituale che da anni, a partire da san Francesco d’Assisi e da san Domenico di Guzman, si diffondeva nella Chiesa.
Questo grande movimento avrebbe dovuto camminare sempre sotto la guida del Magistero più autentico della Chiesa, impersonato dal Papa, guardando a Gesù Redentore, Maestro e Capo. Nell’idea di Bonifacio c’era tutto questo: per avere perdono, luce e guida, orientamento e nuovo slancio dobbiamo guardare a Gesù, solo a Gesù. Era quello il primo Giubileo, il primo Anno santo della storia.
Il Papa apriva le fonti del perdono a tutti i cristiani: mai grazia più grande dell’avvento del Salvatore aveva confortato le anime cattoliche. E le genti giunsero a Roma da ogni parte. Ci fu un afflusso di pellegrini assai grande: lo storico fiorentino Giovanni Villani azzardò la cifra di 200.000. Nel suo Inferno (cf. XVIII, 28-33) Dante scriverà che per evitare disordini, il ponte di Sant’Angelo sul Tevere fu diviso longitudinalmente da uno steccato e chi andava a San Pietro passava da una parte, chi ne veniva dall’altra.
Per lucrare l’Indulgenza i pellegrini dovevano accostarsi alla Confessione e alla Comunione, visitare le Basiliche di San Pietro e di San Paolo: per 30 giorni se romani, per 15 se forestieri. Tra di loro ci furono uomini illustri come Carlo di Valois, Cimabue e Giotto che dipinse un affresco sotto il vecchio porticato di San Pietro.
Papa Bonifacio scese più volte in mezzo ai pellegrini a insegnare e a benedire, vestito di abiti splendenti e con la tiara in capo, simbolo della sua altissima potestà. Sicuramente ebbe l’impressione che la Chiesa e il mondo allora conosciuto si radunasse intorno a lui, o meglio intorno a Gesù Cristo; il nuovo secolo che si apriva, l’epoca nuova che cominciava doveva essere ancora di più segnata da Gesù. Non si può negare che un simile afflusso di popolo in preghiera abbia diffuso dovunque un grande amore al divino Redentore, al suo Vicario sulla terra, alla Chiesa.

Il più illustre

Tra i pellegrini, il più illustre sicuramente fu Dante Alighieri, il quale, nato a Firenze il 14 maggio 1265, proprio in quell’anno fatidico del 1300 compiva 35 anni, l’età che lui considerava il “mezzo del cammin di nostra vita”.
Scrive Umberto Cosmo, uno dei suoi biografi più famosi: «Passavano il pellegrini a frotte per Firenze, a frotte muovevano i fiorentini dalla città. L’onda che avvolse l’Europa investì anche l’anima di Dante. Come avviene nei più alti spiriti i fatti della storia non colpivano in lui solo la fantasia, ma l’intelletto. La concessione del Pontefice legava il temporale all’eterno, il visibile all’invisibile. Religione e filosofia diventavano in Roma realtà concreta di vita: per vivere, bisogna muovere verso Roma».

Per Dante, andare a Roma, era come andare a Cristo.
Nell’accostarsi alla santa Città – citiamo ancora dal Cosmo – Dante si fermò a “Montemalo”, a contemplare l’immensità delle rovine che si stendeva davanti a lui e vide emergere dagli antichi edifici pagani i templi della Fede.
Si prostrò sulla tomba del “maggior Piero” (la tomba di san Pietro) e salì in Campidoglio: tutta la storia di Roma fluttuò dinanzi a lui. Le coincidenze fra la storia ebraica e la romana lo colpirono fortemente. Un giorno da quella meditazione della storia si sprigionerà il grido più commosso: «Oh ineffabile Sapienza di Dio che a una ora per la tua venuta, su in Siria [= in Palestina] e qua in Italia tanto dinanzi ti preparasti» (Convivio).
Ecco, contemplava Dante, Dio aveva preparato la venuta del Figlio suo nel mondo, scegliendosi in Palestina il suo popolo e disponendo in Italia, a Roma, la sede dove Egli, per mezzo del suo Vicario, il Papa, si sarebbe irradiato su tutta la terra. Così lo sguardo di Dante si concentrava su Gesù Cristo, unico Salvatore che da Roma dilaga sull’umanità intera. A Lui avrebbe dovuto ritornare, per salvarsi, l’Italia, l’Europa, il mondo.
Dante non amava l’uomo Bonifacio, secondo lui troppo occupato in cose politiche, ma in papa Bonifacio VIII vedeva letteralmente Cristo oltraggiato, quando Bonifacio sarà oltraggiato dagli inviati di Francia, ad Anagni nel 1303, vedeva la Passione di Cristo rinnovata nelle sue sofferenze: «Veggio in Anagni intrar lo fiordaliso, / e nel Vicario suo Cristo esser catto. / Veggiolo un’altra volta esser deriso; / veggio rinnovellar l’aceto e il fiele, / e tra i vivi ladroni essere anciso».
Cattolico autentico, innamorato di Gesù e fedele al Papa in quanto tale come ognuno di noi dev’esserlo, oggi e sempre.



Un grande disegno

Forse un’anima più grande di lui, il Papa non l’ebbe davanti. Proprio nell’anno del Giubileo, il 1300, a cominciare dal 7 aprile, dalla notte tra il giovedì e il venerdì della Settimana Santa, Dante farà iniziare il grande viaggio che lo porterà, attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, dalla “selva oscura” del peccato e della morte, alla contemplazione di Dio nell’Empireo: Gesù, l’Uomo-Dio, e la Santissima Trinità, per cui ogni uomo è stato creato.
Il più grande poema della terra, la Divina Commedia, è nato dal grande Giubileo del 1300. Dante vede il mondo che traligna dalla retta via, oppresso da tutti i peccati, i vizi capitali che ammorbano l’umanità. Eppure nel piano di Dio ogni uomo è atteso a Salvezza, purché l’uomo lo voglia e corrisponda con la continua conversione al piano di Dio. Dante, che ha ricevuto da Dio ingegno e arte, illuminato dalla fede, si sente chiamato a una missione altissima: indicare di nuovo la via della Salvezza.
Sarà presto esule da Firenze, Dante, perseguitato, benché innocente. Ma è un esule lui e ogni uomo sulla faccia della terra: partito da Dio, attraverso la prova dell’esilio terreno, dovrà tornare a Dio, secondo la visione che san Tommaso d’Aquino ha illustrato nella sua Summa Theologiae. Dante proietta la storia del mondo con i suoi vizi e le sue virtù, il suo sì a Dio e il suo rifiuto, nell’unica luce che illumina: la luce di Dio e dell’Aldilà, davanti a cui prendono giusta misura tutte le cose. In questa luce – luce della ragione e della fede, prima Virgilio, poi Beatrice – Dante compie il suo “viaggio” dal peccato, condannato nell’inferno eterno, attraverso l’espiazione sulla “montagna delle sette balze” del Purgatorio, fino al Paradiso, giungendo per l’intercessione di Maria Santissima, «umile e alta più che creatura», a contemplare Dio, «l’amore che muove il sole e l’altre stelle» (Par XXXIII, 145).
È questo il pellegrinaggio di ogni uomo, dell’umanità intera, l’ascesa a Dio, che solo dà senso alla vita e alla storia. È il disegno di Dio che si attua nella storia del mondo e che Dante traduce in altissima poesia, la Verità di Dio e dell’uomo fatta abitare nello splendore. Davvero “Veritatis splendor”!
Questo esprime la Divina Commedia, «il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par XXV, 1-2). Essa è il poema della Redenzione di Cristo: il primo Protagonista della Commedia è Gesù Salvatore, il Figlio di Dio fatto uomo per soddisfare sulla croce in espiazione dei nostri peccati, il Risorto che trionfa e conduce i redenti (i conquistati!) dal suo Sangue al trionfo.

Ed è pure il poema di Maria Santissima, la prima Collaboratrice di Cristo, la “Corredentrice” nell’opera della Salvezza. E l’altro protagonista, chiamato a corrispondere a tanto dono, è l’uomo – Dante stesso, così che qualche studioso come l’Auerbach, chiamò “Danteide” la Commedia – e ogni uomo interpellato personalmente da Dio.
Così Dante, pellegrino tra i pellegrini al Giubileo del 1300, è diventato grandissimo apostolo di Cristo, forse il più grande nella cultura. Quando nell’Ottocento i preti furono cacciati dalle scuole e vennero chiuse le Facoltà di Teologia, Dante vi restò ad annunciarvi Gesù Cristo e il suo Vangelo, il grande disegno di Dio, anche a chi non lo voleva. Quale apostolato! Forse è per questo che in molte scuole oggi non si studia più Dante, perché si odia e non si vuole più Gesù Cristo, si rifiuta la Redenzione, nella stolta e tragica pretesa che ogni uomo basterebbe a se stesso.
Ma Gesù resta in eterno, anche quando passeranno i cieli e la terra. E con Lui, il suo Poeta più grande e apostolo della Verità che “tanto ci sublima”. Occorre leggere per riscoprirlo, se l’avessimo dimenticato, assaporare, contemplare e amare, lasciarci prendere da Lui interamente, lasciarci trasformare e modellare a immagine di Gesù. Proprio come quell’illustre studioso che, dopo aver letto tantissimi libri, volle tenere con sé soltanto il Vangelo di Gesù e la Divina Commedia e a chi gli domandava: «Perché?», rispondeva sicuro: «Il Vangelo è la più grande e definitiva Parola di Dio all’uomo. La Divina Commedia è la più grande Parola di uomo a Dio».



di Paolo Risso (Il Settimanale di Padre Pio) 

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