Non ha tre stelle Michelin ma almeno una stella cometa. Papa Francesco ora non cucina più (o quasi più) e forse non ne avrebbe nemmeno il tempo, ma un tempo, quando era vescovo di Buenos Aires, preparava da solo i suoi frugali pasti nell’appartamento della capitale argentina in cui si rifugiava dopo le sue giornate da pastore nei barrios bonaerensi.
Quindi si può definire a tutti gli effetti uno chef. Chef Francis, come da titolo di un libro scritto dal biografo del Papa Roberto Alborghetti che sarà presentato la prossima primavera alla Buchmesse di Francoforte ed edito da Food editore e Mondadori.
Per Francesco il cibo ha sempre avuto una grande importantza. «Buon Appetito!», sono le parole con cui spesso saluta i fedeli che tornano a casa per il pranzo domenicale o vanno al ristorante dopo l’Angelus. E da giovane si è diplomato in Chimica degli Alimenti all’istituto Hipòlito Yrigoyen nel barrio Flores, alla periferia di Buenos Aires. E quindi potrebbe tranquillamente discorrere con Ferran Adrià, Massimo Bottura e Hervé Thys di cucina molecolare, di sifoni, agar-agar, texture e azoto liquido.
Ma sono soprattutto le origini italiane di papa Francesco a influenzare la sua passione e il suo rapporto per il cibo. I nonni Giovanni e Rosa Bergoglio si trasferirono in Argentina dalla provincia di Asti nel 1929 con il figlio Mario, che sette anni dopo, nel 1936, avrebbe generato Jorge. I Bergoglio in Piemonte avevano un ristorante e la passione per il cibo gli è stata trasmessa per via matrilineare dalla nonna e dalla mamma. E il piccolo Jorge Bergoglio fu battezzato il giorno di Natale del 1936 nella Basilica dell’Alimentarius. Se non è un segnale commestibile questo…
Il Piemonte naturalmente torna in continuazione nella cucina di chef Bergoglio. Uno dei sui piatti «bandiera» (in gergo si dice così: magari bandiera giallo-bianca) è la Bagna Càuda, la salsa calda con olio, aglio e acciughe salate nel quale si intingono verdure cotte e crude tipica del Basso Piemonte. Un piatto che Bergoglio amava preparare e mangiare magari quando aveva qualche ospite, visto che trattasi di rito comunitario: una ciotola da mettere in mezzo e condividere scambiandosi gastronomici segni di pace.
Il libro non è un ricettario. È più una biografia alimentare del vescovo di Roma. Un uomo che sa dare il giusto valore al pane e al companatico, che sa essere frugale quando serve ma sa anche godere delle delizie del palato quando capita l’occasione. Quando visitò New York nel 2008, da cardinale, fu Lydia Bastianich, madre dell’ancora semisconosciuto (in Italia) Joe e musa della cucina italiana negli States, a preparare per lui alcuni ricchi pasti all’italiana (con piatti come la Coda di rospo alla siciliana e il Risotto con spigola, ortiche e fave) con l’accortezza di servire tante piccole portate in modo da non dare al futuro papa l’impressione di indulgere troppo ai piaceri della carne (e del pesce).
Non un ricettartio, dunque. Ma qualche ricetta c’è. Come quella del Risotto bianco alla piemontese (con Carnaroli, brodo, cipolle, parmigiano, vino bianco). O quella del Pollo arrosto. O i Calamari ripieni. O i Cappelletti con il ragù. Tutti piatti della festa cucinati dalla madre Regina Maria che, racconta Maria Elena, sorella di Josè, «era diventata con gli anni una cuoca eccezionale da far venire l’acquolina in bocca, ma quando aveva sposato nostro padre non sapeva fare nemmeno due uova al tegamino».
Molto più biblica la passione tutta bergogliana per il pane. Cibo basico per eccellenza, che non può non sedurre un gesuita di origini piemontese, quindi un uomo austero al quadrato, per dna e formazione confessionale. Quel pane quotidiano che, sfornato direttamente da Dio, diventa nella teoria di Francesco una sorta di «superfood» buono per mille indisposizioni del corpo e dell’anima. Altro che bacche di goji.
Fonte www.ilgiornale.it
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