In ordine di tempo è l’episodio più recente ma prima ce ne sono stati parecchi altri: dai genitori che a Monserrato si sono scagliati contro la presenza a scuola di due bidelle rom, al sindaco Marino che dà alla Leroy Marlin un terreno che era destinato a verde pubblico e che così invece – per un bel po’ di soldini – ci costruisce un bel megastore accanto al quale, a cambiamento di destinazione d’uso avvenuta, sorgerà un campo nomadi.
La uso apposta questa parola, “nomade”,sapendo che non è quella giusta, la uso perché, purtroppo, è quella che abbiamo in bocca – come “zingaro”, ormai sinonimo. La uso anche perché forse lì, in quel nome, c’è la ragione di tanta paura: per definizione, il nomade non può essere chiuso dentro un muro, non può essere recintato. Di fronte a un problema cui non sappiamo dare un nome, che dentro la nostra anima “gira”, va dove vuole, noi dobbiamo dargli un etichetta, una categoria, un muro di contenimento. Una paura è una cosa brutta: ma se dentro di noi manca persino della fissa dimora, è senza indirizzo, diventa panico, angoscia. Una tragedia.
Così, se ti dicono che nella classe dei tuoi figli c’è una zingara, che la bidella è nomade, salti sulla sedia. Non importa quante volte hai creduto di essere accogliente verso il diverso, a favore dell’integrazione, entusiasta del programma di intercultura a scuola dei tuoi figli. A Monserrato i neo bidelli rom erano assunti in un programma d’integrazione ma, si sa, l’integrazione va bene a seconda di quanto ci sta vicino nella vita. Perché amare i programmi e i grandi orizzonti culturali, è facile, entusiasmante. Amare le persone, risulta a volte molto complesso. Ricordo delle suore indiane che vennero a scuola a parlare delle loro consorelle in patria e delle loro difficoltà e insegnarono a cantare e a ballare musiche popolari del loro paese. Bellissimo. Le madri entusiaste. I bambini un po’ meno, soprattutto per quanto riguardava i menù di altri paesi. Finché l’integrazione sta sulle carte, nelle slide, nelle canzoni, va bene: già nei menù crea problemi. Non diciamo poi se si ha la pretesa di farla da pari. Tra pari della stessa razza. Perché – in buona sostanza – l’Ue ha detto al sindaco di Roma che quel villaggio è un ghetto, e che non si può fare.
Ieri mi sono ricordato di quando a giugno Salvini se l’è presa con Papa Francesco che raccontava come fosse mancanza di rispetto per i rom quando gli autisti del bus, al vederne uno dicevano ad alta voce “attenti al portafoglio”. Mi piacerebbe chiedere al segretario della Lega se pensa che il suo atteggiamento si possa o no chiamare – per lo meno – mancanza di rispetto. Perché se io non voglio stare accanto a una persona che puzza, le devo chiedere di lavarsi; e se rubano, la punisco come avviene per qualsiasi altro cittadino italiano.
Ma devo sapere se sono o no vittima della cultura dello scarto che tanto combatte il Papa. Perché l’elenco della gente da scartare era stata attentamente compilata in quella Germania che, proprio ieri, celebrava la caduta del Muro, l’ultimo retaggio della seconda guerra mondiale. La lista di quelli da eliminare comprendeva i gay, gli ebrei, i down, gli handicappati, e sì, anche i rom. Lo so che è difficilissimo distinguere la rom che si era meritata il lavoro da bidello da quella che mi ha borseggiato sull’autobus. Che mi ha sputato perché non le ho fatto l’elemosina. Che tiene la bambina tutta sporca che gioca per strada accanto a lei che mendica. È difficilissimo distinguere. Ma dobbiamo farlo o non ne usciremo mai. E se Salvini non ha ancora chiesto scusa a Francesco per quello che ha detto a giugno, io comincio a preoccuparmi non poco. di Mauro Leonardi (Prete e Scrittore) per Huffingtonpost.it
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