San Juan Diego come Elisabetta, e Elisabetta come i popoli dell’America Latina. Nel tradizionale appuntamento per la festa di Nostra Signora di Guadalupe, Papa Francesco fa un parallelo tra San Juan Diego, l’uomo cui apparve la Vergine morenita, e la storia di Elisabetta, cugina di Maria. E vede in questa dialettica tra sterilità e fecondità, che caratterizza la storia di Elisabetta, la storia stessa dell’America Latina.
Il santuario della Madonna di Guadalupe è tra i più visitati al mondo, e la devozione per la Vergine – il cui appellativo “di Guadalupe” sembra mutuato dall’azteco per dire “colei che schiaccia il serpente” – è diffuso in tutta l’America Latina. Papa Francesco, in visita in Messico lo scorso anno, volle sostare di fronte l’immagine del Vergine che miracolosamente apparve su un panno su cui il pastore Juan Diego aveva raccolto dei fiori, e che è stato accertato non è stato dipinto da nessuna mano umana.
È a questa devozione popolare fortissima che guarda Papa Francesco, il quale, sin dall’inizio del Pontificato, ha voluto celebrare per la Festa della Madonna di Guadalupe una messa nella Basilica di San Pietro. Una iniziativa che rappresenta anche il modo in cui la pietà popolare dell’America Latina acquista un ruolo e una dignità nella Chiesa.
Nella sua omelia, Papa Francesco parte dal “Magnificat” di Maria, che il Papa ama chiamare “il Cantico della fecondità”. Ed è ad Elisabetta che guarda il Papa, una donna “marcata con il segno della fecondità” che incontriamo sotto il segno della fecondità.
Papa Francesco descrive le due fasi della vita di Elisabetta.
La prima è quella della donna “sterile”, con tutto quello che questo implicava “nella mentalità religiosa dell’epoca”, ovvero “un segno di vergogna portato sulla propria carne”, tanto da “sentirsi un peccato che non ha commesso o di sentirsi poca cosa per non essere all’altezza di quanto si sperava da lei”.
E così – sottolinea Papa Francesco – era San Juan Diego, che dice alla Madonna di “non valere nulla”, ed è un sentimento che è presente anche “nelle nostre comunità indigene e afroamericane”, che spesso “non sono trattate con dignità o eguaglianza di condizioni”, o in donne che “sono discriminate a causa del sesso, della loro razza o della situazione socioeconomica”, o i giovani che “ricevono una educazione di bassa qualità e non hanno opportunità di portare avanti i loro studi o di entrare nel mercato del lavoro”, così come “molti poveri, disoccupati, migranti, sfollati, contadini senza terra” e le vittime della “prostituzione infantile”.
Ma – è questa la seconda immagine – Elisabetta è anche donna feconda. È “la prima a riconoscere e benedire Maria”, ed è quella che ha “sperimentato nella sua propria vita e nella sua carne il compimento della promessa fatta per Dio”.
Come in Elisabetta si vede che il desiderio di Dio non è quello di mantenere sterili o pieni di vergogna i suoi figli, così questo si vede in San Diego, perché fu “proprio lui, e non altri, a portare nel suo mantello l’immagine della Vergine” di pelle scura e volto meticcio (è chiamata la morenita), sostenuta da un angelo con ali di quetzal, pellicano e guacamayo. Ed è così – dice il Papa – che il Signore mostra che “la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”.
Anche questo è in segno per l’America Latina, perché “in questa dialettica di fecondità-sterilità” vediamo “la ricchezza della diversità culturale dei nostri popoli dell’America Latina e dei Caraibi”.
Una grande ricchezza – nota il Papa – che siamo chiamati “a coltivare” e a “difendere valorosamente da tutti i tentativi di omogeneizzazione che finiscono con l’imporre un modo unico di pensare, di essere, di sentire, di vivere”, rendendo così “invalido o sterile” l’eredità dei nostri padri, facendoci sentire “poca cosa” per appartenere a una tale o quale cultura”.
In sintesi, “la nostra fecondità esige di difendere nostri popoli da una colonizzazione ideologica che cancella le vostre cose più ricche, siano indigeni, afroamericane, meticci, campesinos o suburbani”.
Dalla virgen morenita – conclude il Papa – “dobbiamo apprendere ad essere una Chiesa con il volto meticcio, con il volto indigeno, afroamericano, campesino”, e anche “cola, ala, cacaxtle” – le etnie presenti in Messico – e con il volto del povero, del disoccupato, del bambino e della bambino, dell’anziano e del giovane “affinché nessuno si senta sterile o infecondo, e perché nessuno” provi vergogna o si senta poca cosa, ma si senta “portatore di una promessa, di una speranza” come lo furono San Juan Diego ed Elisabetta.
di Angrea Gagliarducci perAciStampa