Le feritoie dei 200 bunker da cui si affacciano i pezzi artiglieria che si preparano a sventrarla non si distinguono da basso, dalla città. Le colline, da basso, hanno solo i colori della primavera anche se nascondono la morte. È il 5 aprile 1992 e Sarajevo sta per essere inghiottita da un incubo. Da settimane, i boschi che fanno da corona alla capitale della Bosnia ed Erzegovina sono i muti testimoni di un accerchiamento implacabile. Pezzi di artiglieria, carri armati, al comando del generale serbo Ratko Mladic: tutti con le canne puntate verso il basso, pronti a falciare uomini, donne, vecchi e bambini – formiche visti dall’alto – che da quel giorno impareranno a correre e ad avere paura.
La mattanza di Sarajevo
All’inizio di maggio – bloccate le vie d’accesso, tagliati i rifornimenti di cibo, di medicine, di corrente elettrica – la mattanza comincia. Stragi quotidiane, meticolose, anche 300 persone al giorno, centrate nei mercati, nei campi da calcio, nelle strade dove donne che scappano con la spesa vengono abbattute dal tiro dei cecchini. Questa è Sarajevo in quei giorni, che diventeranno mesi, che diventeranno anni. Quattro anni di sangue, il più lungo assedio della storia, 12 mila morti, altri 50 mila feriti e storpiati per sempre.
“Io, Vescovo di Roma, il primo Papa slavo, mi inginocchio davanti a Te per gridare: ‘Dalla peste, dalla fame e dalla guerra – liberaci!’. Padre nostro! Padre degli uomini: Padre dei popoli. Padre di tutti i popoli che abitano nel mondo. Padre dei popoli d’Europa. Dei popoli dei Balcani…”.
La Sarajevo sfiorata
Mentre il mondo s’indigna senza muovere un dito, c’è un solo leader, uno solo, che chiede di entrare nell’inferno da dove tutti cercano di scappare. Giovanni Paolo II vuole andare a Sarajevo, la “Gerusalemme dell’Est”. Vuole salirne il calvario e stare, lui Papa slavo, con gli slavi – serbi croati e musulmani – che si stanno massacrando. Arriva quasi a sentire il rombo dei cannoni visitando Zagabria, capitale della Croazia, il 10 e 11 settembre del ’94. Ma Sarajevo, no. Neanche uno snervante lavorío diplomatico riesce a fermare per un giorno la guerra davanti al Papa che vorrebbe venire a parlare di pace.
“‘Sia fatta la tua volontà…’ Si compia nel mondo, e particolarmente in questa travagliata terra dei Balcani, la tua volontà. Tu non ami la violenza e l’odio. Tu rifuggi dall’ingiustizia e dall’egoismo. Tu vuoi che gli uomini siano tra loro fratelli e Ti riconoscano come loro Padre”.
Non lo lasciano andare e allora l’anziano Papa slavo innalza la più dolente preghiera del “Padre Nostro” mai colta e registrata pubblicamente dalle labbra di un Successore di Pietro. Prima di partire per Zagabria, l’8 settembre, a Castel Gandolfo, celebra una Messa e l’omelia che pronuncia è la stessa scritta per la sua visita negata alla città-martire. Per lunghi minuti, i confini del Palazzo apostolico sfumano e in quel cortile entrano in sottofondo le urla, le raffiche, il fumo di Sarajevo:
“Occorre porre fine ad una simile barbarie! Basta con la guerra! Basta con la furia distruttiva! Non è più possibile tollerare una situazione che produce solo frutti di morte: uccisioni, città distrutte, economie dissestate, ospedali sprovvisti di farmaci, malati ed anziani abbandonati, famiglie in lacrime e dilaniate. Bisogna giungere al più presto ad una pace giusta. La pace è possibile, se viene riconosciuta la priorità dei valori morali sulle pretese della razza o della forza”.
Il perdono, l’unica forza di pace
Tre anni dopo, il 12 e 13 aprile ’97 il viaggio impossibile si compie. Giovanni Paolo II entra a Sarajevo e tempesta di messaggi di pace e inviti al dialogo – 7 discorsi in 24 ore – la città tempestata dai mortai. Parla sotto la neve, libera tre colombe e al loro volo bianco affida un altro dei suoi celebri “Mai più!”:
“Mai più la guerra, mai più l’odio e l’intolleranza! Questo ci insegna il secolo, questo il millennio che stanno ormai per concludersi. E’ con questo messaggio che mi accingo ad iniziare la mia Visita pastorale. Alla logica disumana della violenza è necessario sostituire la logica costruttiva della pace. L’istinto della vendetta deve cedere il passo alla forza liberatrice del perdono”.
Servizio di Alessandro De Carolis per la Radio Vaticana
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