Soluzioni così agevoli da chiedersi perché non siano state adottate prima. Peccato che, se le si analizza da un punto di vista tecnico, più che semplici queste sembrino bugiarde. Slogan elettorali e poco più. I primi a frenare, lo si legge nelle interviste di questi giorni, sono proprio i militari. Perché sanno bene che per creare un blocco navale lungo migliaia di chilometri di costa, con litorali bassi come quelli libici che permettono di prendere il mare senza passare dai porti, occorrono decine di navi. Un ammiraglio ha fatto un calcolo approssimativo di 150 unità navali, necessarie per poterne schierare 50 in prima linea continuativamente. Soprattutto, non si capisce quali siano le regole di condotta delle nostre marine: bloccare le navi e rimorchiarle lungo le coste provocherebbe infatti naufragi a ripetizione, dato che ci si confronta con imbarcazioni fatiscenti e stracariche, con nuove stragi e continui salvataggi d’emergenza.
Oltre a presentare dubbi profili di legalità internazionale, dato che ributterebbe nelle mani di criminali schiavisti decine di migliaia di profughi e migranti che hanno già pagato il viaggio e che quindi non sono più utili ai loro aguzzini. Quanto ai bombardamenti delle imbarcazioni, sappiamo tutti che si ridurrebbero a una partita a rimpiattino, possibile solo con la presenza attiva di nostri uomini sul campo per individuare gli obiettivi. La verità è che bisognerebbe essere intellettualmente onesti e spiegare a questo continente europeo terrorizzato ormai da ogni cambiamento della storia – ossia il modo peggiore di vivere il cambiamento inevitabile – che dinanzi a problemi complessi occorre dare risposte complesse. Per dirla in modo tecnico, bisognerebbe pensare a una gigantesca Peacebuilding Hybrid Operation di Human Security.
Definizione indigesta, non riducile a un slogan a effetto e che, dunque, non aiuta a catturare i consensi, ma che rappresenta probabilmente l’unico modo serio di affrontare il problema. Si tratterebbe di una operazione prolungata di costruzione di condizioni di pace (peacebuilding), «ibrida», perché svolta da enti e istituzioni diverse, mettendo a matrice obiettivi differenti, e tesa a raggiungere una “sicurezza umana”, ossia che metta al centro la tutela delle popolazioni e non solo quella delle frontiere. Beninteso, di tutte le popolazioni: sia quelle che migrano, sia quelle che si trovano a subire gli arrivi incessanti (anche negare che questo sia un problema non facilita la soluzione, anzi, rischia di aizzare gli istinti peggiori dei cittadini).
Tradotto in iniziative concrete, significa innanzitutto guardare al problema in modo olistico, non concentrandosi solo sugli effetti finali: quindi non cercare di bloccare centinaia di migliaia (e nei decenni prossimi probabilmente di più) di persone che cercano di sfuggire da una vita senza speranze nell’ultima parte del loro tragico viaggio, ma intervenendo in ogni “fase” della migrazione, partendo dalle cause. L’Africa sub-sahariana è squassata da decenni da crisi di ogni tipo; in particolare oggi dilaga una follia omicida legata a una visione jihadista dell’islam, si tratti delle bande degli al-shabaab somali o degli altrettanto truci assassini e rapitori di Boko Haram.
Contro di essi e contro la situazione di degrado politico, sociale ed economico di quella regione la società internazionale ha fatto e sta facendo troppo poco. Se bisogna mostrare i muscoli e usare le armi (una scelta estrema, che da sola non è mai sufficiente, ma che a volte a precise condizioni – come quelle richiamate, ieri, proprio su “Avvenire” dal teologo moralista don Mauro Cozzoli – è ineludibile), è qui che bisogna farlo, agendo con efficacia e maggiore determinazione contro questi movimenti criminali.
E bisogna nello stesso tempo rilanciare l’impegno per una cooperazione allo sviluppo più mirata, per ridurre fame, povertà estrema, degrado, mancanza di opportunità, cercando nel contempo di agire su quelle storture dell’economia internazionale che hanno favorito uno “sviluppo non-sostenibile” e un sistema economico-finanziario spesso punitivo per il continente africano. Il che significa anche mettere mano al portafogli, incrementando le risorse per gli aiuti allo sviluppo, e adottare modelli economico-finanziari più bilanciati. Rafforzando, nel contempo, le attività di aiuto d’emergenza e incrementando le capacità di “screening” dei rifugiati da parte di agenzie ad-hoc delle Nazioni Unite (come l’Acnur, Alto commissariato per i rifugiati, che svolge, quando può, un lavoro encomiabile).
Nello stesso tempo vanno coinvolte maggiormente le autorità nazionali e locali dei Paesi attraverso cui i migranti viaggiano, spesso in condizioni di rischio estremo o nelle mani di gruppi criminali che fanno dei traffici illeciti (la droga che viene dall’America Latina, le armi, la benzina, gli esseri umani, e ogni altro bene commerciabile) il loro business. Significa aumentare lo sforzo per il controllo delle frontiere nel deserto del Sahara, in particolare di quelle libiche, ora inghiottite dal marasma dell’anarchia di quel Paese.
Subito dopo la caduta di Gheddafi erano stati fatti piani per metterle in sicurezza: tecnologia occidentale (radar, satelliti, droni), a sostegno di forze militari nazionali e con il coinvolgimento indispensabile delle tribù locali, in particolare dei Tuareg. Bisogna ripartire da lì, mettendo ogni attore dinanzi alle proprie responsabilità: noi occidentali per aver gestito in modo pessimo il dopo-guerra, le milizie libiche che hanno preferito distruggere il Paese piuttosto che trovare un accordo, le tribù locali. Le quali, da che mondo e mondo, praticano il contrabbando e altre attività illecite. Dobbiamo agire presso di loro per far capire che certe cose le possono anche fare (il contrabbando locale di certe merci), altre no (il traffico di droga e soprattutto di esseri umani). E che siamo disposti a “inserirli” (leggi: pagarli) per un’attività di controllo e sostegno alla lotta allo schiavismo, così come la Comunità internazionale sarà pronta a punirli se faranno il contrario.
Ma è fondamentale agire con decisione per evitare la frammentazione statuale e l’anarchia, che è la pre-condizione per il dilagare di questa piaga. Non possiamo arrenderci all’idea di una Libia come buco nero geopolitico, vanno quindi sostenuti gli sforzi Onu per arrivare a un governo di unità nazionale. Ma dobbiamo anche far arrivare un messaggio chiaro alle milizie che si ingrassano con il traffico di esseri umani (quelle islamiste in primis, ma non solo loro): sappiamo bene quello che stanno facendo; se vogliono essere considerate come degli interlocutori legittimi della Comunità internazionale, tutto ciò deve cessare.
Nel 2012 erano stati avviati programmi di re-training (riaddestramento e recupero alla legalità) dei miliziani libici, poi naufragati insieme al paese. Un accordo interno ne favorirà la ripresa, ma facendo capire con chiarezza che l’ambiguità non sarà tollerata e, in ogni caso, non pagherà. Questo “progetto ibrido” suona ambizioso? Senza dubbio lo è. Costoso? Certo. Elettoralmente sconveniente? Probabilmente sì, almeno all’inizio. Ma è altrettanto probabile che le opinioni pubbliche, a poco a poco, capiscano. Anche perché l’alternativa è continuare a illudersi che esistano soluzioni semplici a un problema difficile e complesso. E, allo stesso tempo, continuare a contare gli sbarchi, i morti o a leggere sui “post” dei social network chi inneggia alle stragi del mare. Rinunciando a essere cittadini maturi nel primo caso, e svilendo la nostra dignità umana nel secondo.
Di Riccardo Redaelli per Avvenire
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