Dopo il caso delle nigeriane nel Cie di Ponte Galeria, le associazioni denunciano la mancanza di un Piano nazionale e le risorse economiche ridicole. “C’è una generale regressione nel contrasto. E spesso si finisce per assecondare le violazioni dei diritti umani”.
Il caso delle 65 donne nigeriane sbarcate lo scorso luglio in Sicilia e trattenute nel Cie di Ponte Galeria, alle porte di Roma, con la minaccia di un rimpatrio forzato, “mostra tutte le debolezze e gli interrogativi che vive chi si batte contro la tratta”. A spiegarlo a Redattore Sociale è suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolatache visita la struttura di Ponte Galeria da tredici anni, “cercando di dare una dignità a queste ragazze e evitando che finiscano, o tornino, nelle mani di sfruttatori”. In questi giorni si recherà nel centro, accompagnata da alcune religiose nigeriane, per supportare le donne in un momento di enorme difficoltà.
UN CONTESTO OSTILE
Più netto ancora il giudizio di Carla Quinto, che coordina lo sportello legale della cooperativa Be Free, attiva nel Cie: “l’articolo 18 della legge Bossi-Fini, quello che garantisce la protezione delle vittime di tratta, è oggi un’oasi nel deserto”. Una norma importante, “resa vana – denuncia l’avvocata – da un contesto culturale, politico e normativo ostile alla lotta alla tratta, che finisce per assecondare gravi violazioni dei diritti umani”. A dispetto delle parole del premier Matteo Renzi, che lo scorso aprile si impegnava a combattere i trafficanti di uomini definendoli “schiavisti del 21° secolo”, associazioni, avvocati e attivisti segnalano insomma una generale regressione nel contrasto alla tratta di persone nelle sue varie forme, dallo sfruttamento sessuale a quello lavorativo. Tanto che, talvolta, si preferisce rimpatriare le vittime piuttosto che proteggerle, re-immettendole così nei circuiti di sfruttamento.
IL PARADOSSO ITALIANO
Vincenzo Castelli, presidente dell’associazione On The Road, con sede in Abruzzo ma attiva in tutto il centro Italia, è un fiume in piena. “Di fatto – dice – siamo di fronte a un paradosso: alla nostra legislazione e ad alcune esperienze italiane si sono ispirate convenzioni internazionali e l’ultima direttiva dell’Unione Europea, la 36 del 2011, ma poi noi non siamo in grado di attuare queste norme”. Oltre allo sfruttamento sessuale, spiega Castelli, nell’alveo della tratta rientrano oggi l’accattonaggio, la vendita di organi, i matrimoni forzati e il lavoro domestico, agricolo o artigianale. Ma “attenzione a non fare confusione: parliamo di persone rese effettivamente schiave, non di chi ricorre a un mezzo illegale per entrare sul territorio italiano, ma una volta arrivato è libero di muoversi”. Per questo Castelli non condivide “il rilascio indiscriminato, come sta avvenendo in Sicilia, di permessi di soggiorno come vittime di tratta a chi denuncia presunti scafisti, con l’effetto che magari si denuncia, proprio per ottenere un permesso, anche qualcuno che non c’entra”.
PER L’ACCOGLIENZA UN CENTESIMO AL MESE
L’equazione scafisti-schiavisti proposta da Renzi dunque non convince, nonostante le innegabili crudeltà raccontate da molti superstiti dei viaggi via mare. A ostacolare la lotta alla tratta, secondo Castelli, sono però principalmente due mancanze: quella di un Piano nazionale antitratta, previsto a livello europeo, e dunque di una vera politica nazionale e la scarsità di risorse per l’accoglienza e l’integrazione delle vittime.Otto milioni di euro all’anno, l’equivalente di un centesimo al mese per ogni italiano, gestiti senza nuovi bandi e con proroghe semestrali continue dei progetti del terzo settore. Strutture che ricevono in media 11 euro al giorno per ospite, una cifra irrisoria per chi, oltre a vitto e alloggio, deve offrire assistenza legale e psicologica, mediazione culturale, formazione al lavoro, corsi di lingua. Tanto che, spiega suor Eugenia Bonetti, “noi riusciamo a dare ospitalità perché lo facciamo a spese nostre, delle comunità religiose in cui sono inserite le donne, ma le associazioni sono spesso costrette a chiudere”.
IL PIANO CHE NON C’È
“Se tutto va bene, a settembre ce l’avremo”. Sul Piano d’azione contro la tratta, che l’Italia doveva adottare entro il giugno 2014, Francesca Nicodemi è ottimista. “Dovrebbe essere in dirittura d’arrivo – spiega l’avvocata e referente per la tratta di Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione – e speriamo contribuirà a mettere fine aanni di grande indifferenza istituzionale, adottando tutte quelle norme della direttiva europea che l’Italia ha finora trasposto in modo approssimativo”. Tanto che lo scorso giugno l’Asgi ha depositato un esposto alla Commissione europea, chiedendo che l’Italia dia peso, in particolare, al diritto a una piena informazione legale, a un risarcimento “reale, non i 1500 euro forfettari previsti oggi in Italia, una cifra ridicola”, alla formazione degli operatori e al raccordo tra forze dell’ordine e terzo settore. Al centro ci sono però, soprattutto, due aspetti: la protezione sociale di “potenziali vittime” e la predisposizione di sistemi di identificazione e monitoraggio.
IDENTIFICAZIONE, MA VERA
L’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione prevede l’accesso a percorsi di accoglienza per chi vuole emergere dalla tratta. Strutture protette, possibilmente lontane dai luoghi dello sfruttamento. La vittima deve poter però provare che lo sfruttamento è avvenuto in Italia e così chi, come gran parte delle donne trattenute nel Cie romano, ha subito violenze e abusi in Nigeria, Niger, Libia, entrerà difficilmente nel sistema d’accoglienza. Ma la direttiva europea, evidenzia Nicodemi, “parla di potenziali vittime, a cui va dato il cosiddetto periodo di riflessione: da pochi giorni a tre mesi di accoglienza, in cui ri-appropriarsi del proprio futuro e decidere cosa fare, come e se collaborare con indagini di polizia”.
A questo punto è fondamentale, come ripetono tutti gli operatori del settore, un’identificazione attenta, che è mancata per le donne trattenute oggi nel Cie. “Se in cinque giorni nei centri di primo soccorso siciliani non si è capito che erano destinate al mercato del sesso – sottolinea Vincenzo Castelli – significa che manca un pezzo fondamentale nel contrasto alla tratta, anche perché senza la collaborazione delle vittime le indagini non arrivano a nulla e si continua a far arricchire le organizzazioni criminali”.
NUMERI IN CRESCITA
Le donne nigeriane rappresentano la fetta più conosciuta di un fenomeno sommerso, per cui mancano cifre ufficiali. Sarebbero 1400 quelle arrivate via mare in Italia nel 2014, un numero che potrebbe crescere nel 2015, se, come rivelato da L’Espresso, nei primi cinque mesi dell’anno sono state tre volte di più che nello stesso periodo del 2014. Altre sono però portate in aereo, o via terra da paesi confinanti. Nei giorni scorsi un rapporto di Save the Children ha lanciato un allarme anche rispetto ai minori vittime di tratta: 300 i nigeriani soli arrivati via mare nel primo trimestre 2015. Dati probabilmente sottostimati, perché i trafficanti obbligano le vittime a dichiararsi maggiorenni. Intanto, spiega Carla Quinto, “si celebrano sempre meno processi contro la tratta, mentre le donne arrivano in condizioni sempre più drammatiche, con traumi che rendono difficile anche solo ricordare cosa si è vissuto e raccontarlo alle forze dell’ordine”.
LA SOLUZIONE? UN “ASILO PROTETTO”
Le donne di Ponte Galeriasi trovano dunque di fronte all’ignoto, sostiene con preoccupazione suor Eugenia Bonetti. “L’ambasciata nigeriana continua a chiamarci, dicendo di convincerle a tornare a casa, ma i rimpatri alla leggera favoriscono solo i trafficanti”. La soluzione? “Con l’associazione Slaves No More, noi proponiamo un rimpatrio assistito: se tornano possono rimanere due anni in comunità protette e avere un aiuto per avviare un’attività economica”. Come buona parte delle nigeriane sbarcate in Italia, le donne sono però riuscite a presentare una domanda di asilo, che sarà valutata dalle prossime settimane. “Il rischio – per Bonetti – è che escano con un permesso di soggiorno come rifugiate, ma senza nessun appoggio”.
Per l’avvocato Nicodemi l’unica risposta è dunque “far accedere le vittime di tratta alla procedura d’asilo, se ne hanno diritto, inserendole però nelle strutture di protezione per l’articolo 18”. Una prospettiva che si scontra con la visione dei “percorsi articolo 18 come premi per chi collabora con indagini di polizia, che però non hanno spesso risorse sufficienti per proseguire, aiutando al contempo le vittime a elaborare i traumi subiti e creando rapporto di fiducia con operatori e forze dell’ordine”. Insomma, un cane che si morde la coda. In cui, alla fine dei conti, a perdere sono sempre le vittime.
Redazione Papaboys (Fonte www.redattoresociale.it/Giacomo Zandonini)