Oggi giornalista e presidente dell’Istituto di Cooperazione Economica Internazionale (Icei), da giovane studente perseguitato dalla dittatura argentina del generale Jorge Rafael Videla, riuscì a fuggire, per riparare in Italia, grazie all’interessamento di Jorge Mario Bergoglio, all’epoca provinciale dei gesuiti argentini.
Lo ha raccontato Nello Scavo nel libro “La lista di Bergoglio. I salvati da Francesco durante la dittatura. La storia mai raccontata” (EMI). Ora, 38 anni dopo, Alfredo Luis Somoza ha incontrato nuovamente il «padre Bergoglio», in occasione dell’udienza concessa dal Papa all’Istituto Italo-Latino Americano (Iila) , e in questa intervista ripercorre i «tempi bui» della guerra sporca argentina, analizza il ruolo di «grande riparatore di errori commessi in passato» che il Pontefice argentino sta svolgendo in questi anni, e racconta l’incontro con il Papa e la sua battuta: «Chi avrebbe mai detto che ci saremmo ritrovati qui?».
Come e perché aveva conosciuto Jorge Mario Bergoglio?
«All’epoca della dittatura io ero studente dell’Università del Salvador di Buenos Aires, che era stata ceduta dal punto di vista gestionale ai laici ma continuava ad essere a tutti gli effetti l’università della Compagnia di Gesù. Padre Bergoglio era il Provinciale e come tale si interessava dell’istituzione e più volte abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare i suoi consigli. Lui sapeva molto più di noi su cosa succedesse in Argentina e il suo suggerimento era sempre quello di aprire gli occhi, non credere alla propaganda e di non esporci. Poi abbiamo saputo, chi come me direttamente, chi successivamente, che padre Bergoglio si adoperava attivamente per mettere al riparo, offrendo rifugio e agevolando l’uscita dal Paese, quelle persone che rischiavano la morte per via delle loro attività nel sociale quando questo era equiparato al terrorismo. Nel mio caso, i problemi riguardavano la mia attività giovanile come giornalista culturale per una rivista che stampavamo in proprio e distribuivamo a mano. Nella mia uscita clandestina dall’Argentina ho avuto sostegno da questa rete anche in Brasile, da dove mi imbarcai con destinazione Genova. In Italia ottenni lo status di rifugiato politico concesso dalle Nazioni Uniti e, dopo pochi anni, la cittadinanza italiana Ius sanguinis per via di mia madre».
Dopo 38 anni cosa vi siete detti quando, venerdì scorso 30 giugno, vi siete incontrati di nuovo?
«Quando era stato scelto come Pontefice, era in uscita un mio libro, “Oltre la crisi”, che riuscii a fermare in tipografia per aggiungere un ultimo capitolo, “Il primo Papa dell’era Brics”, dedicato al nuovo Pontefice. Lo inviai a Papa Francesco che mi ricambiò con una bella lettera di benedizione. Finalmente venerdì scorso ho avuto l’opportunità di poterlo ringraziare di persona durante l’udienza per i 50 anni dell’Istituto per i rapporti tra Italia e America Latina. È stato un’incontro fugace, sguardi che si riconoscevano dopo tanti anni e che tornavano indietro ai tempi bui. Ma Francesco con il suo grande sorriso ha trovato la battuta giusta, e devo dire molto argentina, salutandomi con un: “Chi avrebbe mai detto che ci saremmo ritrovati qui?”».
Com’era la Chiesa argentina all’epoca della dittatura militare? Che ruolo hanno avuto all’epoca Jorge Mario Bergoglio e la Compagnia di Gesù?
«Sono stati scritti diversi libri sul ruolo della Chiesa durante la dittatura di Videla. È stata un’esperienza traumatica che ha prodotto martiri uccisi per la loro testimonianza, come il vescovo Angelelli, ma anche pagine vergognose di connivenza con i generali e con i torturatori. La Compagnia di Gesù non ebbe un ruolo da protagonista, ma scelse un basso profilo. Loro volevano salvaguardare l’autonomia in materia intellettuale ed educativa che se avessero ceduto sulla radicalizzazione avrebbero sicuramente visto svanire. Bergoglio era preoccupato dalla gestione della grande responsabilità che aveva come più giovane Provinciale di tutti i tempi, ma era anche impegnato nella tutela della vita umana. Il recente film “Chiamatemi Francesco” ricostruisce in modo molto fedele luci e ombre dei gesuiti durante quel periodo».
Come valuta il ruolo che sta avendo la Chiesa argentina adesso che su quell’epoca si è aperto un nuovo capitolo, in particolare con la decisione, condivisa da Conferenza episcopale argentina e Santa Sede, di rendere accessibili alle vittime e ai familiari diretti dei desaparecidos i relativi documenti presenti negli archivi ecclesiali?
«Credo che finalmente sia stato fatto un atto dovuto. Non basta il mea culpa che Francesco, da arcivescovo di Buenos Aires, fece fare alla Conferenza episcopale, ci vogliono anche atti concreti che possano aiutare a chiarire una verità scomoda, ma dovuta ai parenti delle vittime della dittatura. Per molte questioni latinoamericane, come il perdono ai ministri-sacerdoti del Nicaragua, la beatificazione di monsignor Romero e altre, Francesco è stato un grande “riparatore” di errori commessi in passato e che avevano avuto come conseguenza l’allontanamento della Chiesa di tanti fedeli. La Chiesa di Francesco è in linea con il Concilio Vaticano II, l’unica via per tornare “popolare”».
Alcuni Paesi latino-americani, ha detto il Papa nel corso dell’udienza all’Iila dove lei era presente, «stanno attraversando momenti difficili a livello politico, sociale ed economico»: qual è la sua valutazione del ruolo che in questo frangente possono avere il Papa e la diplomazia della Santa Sede in scenari quali il Venezuela, il Brasile, la Colombia?
«In Colombia la spinta di Francesco è stata decisiva nella fase finale degli accordi che procedevano da prima dell’inizio del suo pontificato. In Venezuela – la vera spina che provoca dolore al Papa in questo momento – Francesco ha schierato una personalità di rilievo, il cardinale Pietro Parolin, già nunzio apostolico a Caracas e oggi Segretario di Stato vaticano, per provare a fare sedere a un tavolo governo e opposizione in modo di trovare una convivenza pacifica fino alle elezioni presidenziali del 2018. Purtroppo questa proposta di mediazione non è stata accettata da entrambe le parti perché vorrebbe dire riconoscersi reciprocamente. Ma quel’è l’alternativa per il Venezuela sconvolto dalla crisi economica e sociale? La guerra civile purtroppo. Speriamo l’appello di Francesco trovi orecchie attente nelle prossime settimane. Sul Brasile non mi risulta un interessamento diretto del Vaticano, ma è innegabile che sia nel pensiero del Papa visto che si tratta del Paese con più cattolici al mondo».
Fonte www.lastampa.it/Iacopo Scaramuzzi
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