Autunno caldo, si diceva quasi cinquant’anni fa, quando, nel solo 1969, si contarono 239 milioni di ore di sciopero. Sono passate due tre generazioni, è cambiato il mondo. È rimasta l’espressione, null’altro. Gli scioperi di quegli anni segnavano una società in espansione, una società in crescita. Servivano a riequilibrare i conti: i salari in un anno crebbero di un quarto, contribuendo a far crescere il benessere diffuso. Era il mondo del lavoro dipendente. Poi i sindacati si andarono affermando anche come attori politici, nel grande marasma degli anni settanta dei grandi scioperi politici, ormai due generazioni fa. Finiti anche quelli, senza alcun rimpianto.
Oggi la platea dei lavoratori è cambiata radicalmente: finiti i grandi agglomerati industriali, ridotti i sindacati, di aderenti e di peso politico. Lo sciopero, anche lo sciopero generale di cui si torna a parlare in questi giorni, è solo uno strumento difensivo, di fronte ad un lavoro che scappa, che le multinazionali spostano in uno scacchiere europeo e mondiale. Diventa difficile mobilitare, in un universo frammentato. Riescono gli scioperi di nicchia, piccoli gruppi che occupano posizioni strategiche, in particolare nei servizi.
Serpeggia un senso di impotenza, in questa “Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Attori antichi, come partiti e sindacati, tipiche istituzioni del ventesimo secolo, fanno fatica, scontano antichi errori e una diffidenza ormai radicata. Sono in perdita secca di consensi. Eppure c’è, oggi più che mai, e soprattutto in questo passaggio di profonda e radicale ristrutturazione dei rapporti economici e sociali – che scivola via senza che ce ne accorgiamo – c’è tanto, tanto bisogno di rappresentanza di interessi collettivi e di tutela dei diritti.
Ecco allora il paradosso: partiti e sindacati sono – non senza colpe loro proprie – in caduta libera nel consenso e nella stima dell’opinione pubblica, che ha ragioni da vendere. Ma il rischio è che il ruolo che sindacati sclerotizzati, spiazzati da cambiamenti che non hanno voluto seguire, non sono più in grado di giocare, e si tratta di un ruolo indicato nel testo stesso di una Costituzione purtroppo ancora inattuata in questo come in altri punti, non venga occupato da nessuno. E’ concreto il rischio che i nuovi lavoratori dei nuovi lavori, che sono spesso “lavoratori poveri”, siano poveri non solo di salario, ma anche di tutele, garanzie, diritti, prospettive. Un dibattito legislativo frenetico e sloganistico sul lavoro non aiuta. Urge decidere, ma anche evitare di creare contrapposizioni artificiali o inutili, che guardano all’immediato e rischiano di non rispondere ai bisogni concreti dei lavoratori e soprattutto di chi un lavoro lo cerca. Intanto paradossalmente è rilanciato il ruolo di paracadute e di welfare della famiglia. Ma è una soluzione all’italiana che non ha prospettiva e che non regge, in un orizzonte mondiale in cui invece valgono qualità e solidità del sistema istituzionale e sociale.
Di Francesco Bonini per Agensir
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