Tanti i giovani presenti a Roma per discutere di immigrazione. Tante le domande e la voglia di sapere di più sui loro coetanei rifugiati o emigrati in Italia. D’altronde sono proprio loro, i ragazzi, ad accogliere gli stranieri, perché la scuola è la culla dell’integrazione, come ha spiegato nel suo intervento Donatella Parisi, responsabile della comunicazione del Centro Astalli:
“La nostra esperienza ci dice che i bambini, molto spesso, sono i primi mediatori culturali all’interno di queste famiglie, perché vengono inseriti il prima possibile nelle scuole pubbliche, nelle scuole italiane, e andando a scuola hanno immediatamente relazioni con i loro coetanei, con i maestri. Quindi questa loro presenza all’interno della scuola porta le famiglie ad essere – anche loro – più presenti, ad uscire dal centro e ad affacciarsi sul territorio: dal semplice colloquio con le maestre all’invito a casa dell’amichetto, alla voglia di leggere un libro che bisogna andare a comprare… Quindi loro spesso sono i motori di una inclusione sociale all’interno di un nuovo territorio, all’interno di un nuovo contesto per l’intera famiglia. Spesso i genitori devono elaborare il lutto del processo migratorio, che per i rifugiati avviene all’improvviso, avviene non scelto, avviene costretto da una situazione contingente. Questo dolore, a volte, è più forte della voglia di integrarsi nel nuovo contesto. Quindi questi bambini, in qualche modo, sono dei nemici di questo dolore e costringono le famiglie ad integrarsi”.
Durante il seminario sono stati i ragazzi stessi a far capire che non si può più parlare di stato d’emergenza, perché gli stranieri sono ormai parte integrante del Paese. Oggi uno studente su 10 non è italiano, un dato che mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes, ha esortato a considerare una ricchezza:
“Certamente questa presenza nella scuola del mondo dell’immigrazione è stato un valore aggiunto significativo. Se si pensa che avremo perso 800 mila studenti e questo avrebbe significato anche molte scuole chiuse, molti insegnanti ulteriormente precari… Quindi questo è un patrimonio certamente significativo. La presenza di un 10 per cento proveniente da un’altra nazionalità nelle nostre scuole pone il problema di una scuola diversa: una scuola multiculturale, una scuola dove l’elemento linguistico anche di altri Paesi viene valorizzato come una realtà importante in alcune città. Penso, ad esempio, ad una città come Prato e alla scelta di alcune scuole di mettere come seconda lingua il cinese: è interpretare un territorio che ha 30 mila persone che provengono dalla Cina, valorizzando una certe realtà ed esperienza. Quindi, da questo punto di vista, credo che una riforma della scuola debba essere profondamente una scuola interculturale e possa veramente interpretare anche questa sorta di meticciato scolastico come una esperienza importante su cui ridisegnare non solo l’Italia, ma anche la nostra Europa”.
È il momento che la politica prenda atto che la scuola italiana è già multietnica, adottando provvedimenti che tutelino ogni studente. Ma non basta. È anche necessario far sì che la società inizi a comprendere che la sua identità è cambiata. A sottolinearlo è stata la prof.ssa di sociologia delle relazioni interculturali Enrica Tedeschi:
“ Bisogna conoscere, perché non si accetta ciò che non si conosce. Non bisogna colpevolizzare le persone che hanno paura: hanno paura, perché non sanno! Noi dovremmo dare loro gli strumenti per sapere. Quando si sa, si accetta”.
L’integrazione è un processo complicato che richiede degli sforzi tanto al migrante quanto allo Stato ospitante, ma alla fine arricchisce tutti. A quanto pare i più piccoli, con la loro curiosità e la capacità di vedere nell’altro un amico, lo hanno capito prima degli altri.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana
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