Che proposito hanno le ferite – non solo fisiche – nella nostra vita? La scrittrice Dawn Eden, che ha subìto abusi sessuali nell’infanzia, ha trovato la risposta nell’esempio di alcuni santi, che l’hanno aiutata a curare le ferite della sua anima.
“Il perdono testimonia che l’amore è più forte del peccato”, ha affermato la Eden, che nel suo iter di superamento personale si è resa conto che doveva chiedere la grazia di perdonare la madre, con cui aveva un rapporto molto difficile.
In questo cammino di perdono e guarigione, la scrittrice si è sempre sentita accompagnata dai santi, ma assicura che per poter approfittare delle grazie che ci giungono attraverso la loro intercessione dobbiamo essere innanzitutto capaci di “riconoscere le nostre ferite”.
I santi, che immaginiamo perfetti, in realtà lo sono perché “durante la loro vita hanno permesso che Dio li perfezionasse e li purificasse”. Santi come quelli che vi presentiamo di seguito hanno insegnato alla Eden “che ogni sofferenza ci permette di arrivare ad essere come Colui che ha sofferto sulla croce”.
La vita di questi “amici di Dio” mostra – così ha sperimentato la scrittrice – che “il Signore desidera curare le nostre ferite e, cosa più importante, guarirci attraverso di esse facendo sì che tutto quello che abbiamo subìto serva ad avvicinarci di più a Lui”.
Questi santi non solo si sono uniti di più a Cristo nel dolore, dando così senso alle loro ferite, ma hanno mostrato che è possibile perdonare chi ci ha feriti, anche se per questo, come dice Benedetto XVI, serve un pizzico di bene che permetta di iniziare a cambiare l’odio con l’amore e la vendetta con il perdono.
San Sebastiano: Unire le nostre ferite a quelle di Cristo
Esiste un amore che soffre, afferma la Eden, che ha portato alcuni santi a configurarsi talmente con Cristo e con la sua Passione che perfino sul proprio corpo hanno subìto ferite e stigmate, come nel caso di Santa Caterina da Siena, Santa Margherita da Cortona o Gemma Galgani. Tutte queste sante hanno sperimentato una “grande gioia per le loro sofferenze in unione con Cristo”.
Perché Dio ha permesso che alcuni santi partecipassero in modo tanto stretto alla Passione di Gesù?
Da un lato, tutti i cristiani sono chiamati a “completare” con le proprie sofferenze, per la propria redenzione, la Passione di Cristo e ad esclamare, come San Paolo: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”.
Un esempio di questo è San Sebastiano. In genere viene rappresentato attraversato dalle frecce, e l’aspetto più interessante non è che sia stato martirizzato in modo terribile, ma che sia sopravvissuto. Santa Irene lo raccolse e curò le sue ferite. “Sebastiano doveva essersi reso conto che Dio lo aveva guarito per compiere una missione”, ha spiegato la Eden.
Questa missione consisteva nel fatto di andare da Diocleziano, l’imperatore che aveva ordinato il suo martirio – e quello di migliaia di cristiani –, per avvertirlo che la sua anima era in pericolo.
Diocleziano, vedendolo vivo, lo fece uccidere a bastonate. Secondo la Eden, Sebastiano rappresenta “un’allegoria di quello che accade a una persona che ha subìto abusi sessuali: rivive periodicamente le sofferenze, i traumi e le ferite a mo’ di ‘secondo martirio’, come è avvenuto a San Sebastiano”.
Rivivere periodicamente il dolore “permette che la persona abbia un’idea di chi è e di cosa le è accaduto. In questo modo, la sofferenza si avvicina di più alla redenzione e ci cura”.
Santa Giuseppina Bakhita: Recuperare in Dio la nostra identità
Questa santa africana ricorda nei suoi scritti come, minacciata con pistola e coltello, non sia stata in grado di gridare né di pronunciare il suo nome. La Eden racconta che la santa, come risultato della paura, si era dimenticata il nome che le avevano dato i suoi genitori, ricordando solo quello di Bakhita, come l’avevano chiamata i suoi sequestratori. Ha subìto una perdita di identità, cosa condivisa da molte vittime di traumi infantili.
Bakhita venne trattata come una merce, venendo venduta varie volte in sei anni. Questo presupponeva il fatto di essere mostrata nuda ai compratori, cosa che ha senz’altro aggravato la sua ferita.
Quello che ha permesso a Bakhita di raggiungere la santità non è stata però l’esperienza della schiavitù, ma quella di sapersi redenta, segnala la Eden. Durante la sua giovinezza ha subìto abusi e sofferenze, ma la sua vita adulta è un esempio di guarigione e perdono.
Nel tempo che trascorse con alcune religiose prendendosi cura della figlia dei suoi padroni ricevette la fede, e a poco a poco imparò l’amore del Padre, il che le permise di “trovare la sua identità nella famiglia di Dio”, ha spiegato la Eden. Fu in quella famiglia che conobbe un Padre che la amava e una fede che la portò a perdonare chi l’aveva abusata e maltrattata.
Sant’Ignazio di Loyola: Donare la nostra memoria a Dio
I ricordi costituiscono la base della nostra identità, e la nostra mente, ricorda la Eden, di fronte a episodi traumatici come la perdita di una madre da piccoli o una ferita di guerra, com’è accaduto a Sant’Ignazio di Loyola, cerca di nascondere la memoria dei fatti più dolorosi. Si ricordino o meno, ad ogni modo, “restano in noi”.
Per questo Sant’Ignazio, in un momento della sua vita, offre a Dio la sua memoria, la sua libertà, la sua mente e tutto il suo essere. In quell’istante, sta offrendo quello che non può cambiare del suo passato, ma che è lì e lo ha fatto diventare quello che è. Si abbandona alla Provvidenza di Dio e riconosce che nella sua vita ci sono punti oscuri.
Per compiere un primo passo nel perdono di se stessi, di chi ci ha fatto del male o anche di Dio (perché a volte non capiamo perché Egli permetta quel dolore) possiamo seguire l’esempio del santo che “ha scoperto che lo Spirito Santo era in grado di usare tutte le esperienze che lo avevano formato per portarlo all’amore di Cristo”, cosa che ci porta a verificare che la memoria non è un nemico, ma come ha spiegato Benedetto XVI memoria e speranza sono inseparabili, e per questo avvelenare il passato non dà speranza, ma distrugge le nostre basi emotive.
Santa Maria Goretti: Il perdono è più forte di qualsiasi peccato
Il Catechismo dice che “non è in nostro potere non sentire più e dimenticare l’offesa; ma il cuore che si offre allo Spirito Santo tramuta la ferita in compassione e purifica la memoria trasformando l’offesa in intercessione”. Secondo la Eden, questo non significa che perdonare non comporti sofferenza, ma che l’unione con Cristo richiede un martirio interiore. Una di queste martiri che testimonia che il perdono è possibile è Santa Maria Goretti, “martire della castità”.
La Goretti resistette ad essere abusata da Alessandro, il giovane vicino che in varie occasioni aveva provato ad approfittarsi di lei e che voleva costringerla a offrirsi a lui per salvarsi la vita. Maria, sapendo che non stava peccando, gli rispose che se l’avesse violata sarebbe andato all’inferno, ovvero si preoccupò dell’anima di Alessandro. Il giorno dopo, la ragazzina morì perdonandolo e desiderando che si ritrovassero in Cielo.
La castità trova la sua espressione più elevata nella misericordia: il perdono esercitato da un cuore ferito permette che il corpo assomigli di più a quello di Cristo risorto.
Fonte it.aleteia.org
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