Sono passati pochi mesi da quando papa Francesco percorreva le strade polverose dello slum di Kangemi, periferia ovest di Nairobi. E il ricordo di quella visita assolutamente eccezionale è ancora vivissimo tra la gente. Che ben presto però è tornata alle occupazioni di tutti i giorni. Anche qui, come altrove, in questa città segnata da forti e odiosi contrasti, l’imperativo è sopravvivere.
Lo sa bene Alain Ragueneau, ‘piccolo fratello del Vangelo’, che vive qui da quindici anni, dopo averne vissuti più di venti in un villaggio della Tanzania e prima ancora tre con i nomadi del Niger. Tutto però era cominciato in un villaggio semi abbandonato della Sicilia e dopo un’esperienza in Senegal, dove – dice – «mi sono reso conto che, nel mondo, la maggior parte della gente vive nella povertà. Mi sono detto che dovevo scegliere da che parte stare». Il suo percorso di vita risponde da solo. Con il confratello Edouard, ruandese, condivide una casetta essenziale, in un compound con altre famiglie, proprio dietro la chiesta di Christ the King, ‘cappella’ della parrocchia di Saint Joseph, quella visitata da papa Francesco. Nella vita semplice e piena di relazioni che conduce in questo slum di circa 150mila abitanti, si incrociano molti dei temi affrontati dal Pontefice nel suo viaggio in Africa: povertà, sofferenza, diseguaglianze e discriminazioni, mancanza di prospettive, corruzione… Ma anche le grandi sfide che interpellano la Chiesa: «Approfondire la fede è, a mio avviso, la prima – dice fratel Alain –: qui la gente è molto credente, ma è veramente cristiana? Si prega sempre Dio Padre, molto meno Gesù. Per questo la seconda priorità è creare una vera ‘intimità’ con Gesù, che si traduca poi in gesti concreti.
E, infine, la vita famiglia. Dovremmo accompagnare di più e meglio le coppie al matrimonio e stare loro accanto anche dopo. Invece, oggi, i giovani-adulti sono quelli più ‘abbandonati’ a loro stessi». Ricorda uno degli ultimi libri di Carlo Maria Martini, dove il cardinale metteva tra le priorità la Parola di Dio, la conversione e il matrimonio. «Mi ci ritrovo anche qui, sebbene il contesto sembri così lontano da quello europeo». Fratel Alain racconta il suo Vangelo della vita, strada facendo: cammina per lo slum, si ferma per visitare una famiglia dove entrambi i genitori sono malati di Aids e il loro bambino è sieropositivo e poi per dare un saluto a un’anziana signora, che è stata malata. Quindi è la volta della responsabile di una comunità di base che è anche ministro straordinario dell’Eucaristia – «una cosa rara anche a Nairobi per dei laici» e infine una giovane donna, abbandonata dal marito non appena ha saputo che aveva l’Aids. Madre di due figlie, ha recentemente avuto un aborto spontaneo con serie conseguenze anche a una gamba.
È con questa piccola famiglia tutta al femminile che Alain ed Edouard hanno trascorso la loro Pasqua. Intanto, però, lo sguardo è rivolto già alle prossime settimane, quando sarà chiamato a guidare un ritiro spirituale in una prigione di Nairobi. «Un progetto sperimentale partito tra novembre e dicembre dello scorso anno, grazie all’iniziativa di quella che allora era la responsabile di tutte e cinque le prigioni della capitale. Un’iniziativa molto coraggiosa che sta dando frutti insperati». L’inizio non poteva essere più difficile: un mese intero nella prigione di massima sicurezza di Nairobi, tra i condannati all’ergastolo o alla pena di morte (che da molti anni però non viene eseguita).
«La prima settimana abbiamo lavorato sulla persona: chi sono io, chi sono stato, chi vorrei essere. La seconda sulle relazioni, fuori e dentro la prigione. Le ultime due, più spirituali. Una bella sfida anche per noi. E una risposta molto positiva da parte dei detenuti. Al termine della sessione con le donne, alcune hanno chiesto di poter incontrare le persone che hanno ‘offeso’ o i loro familiari. Si sentono pronte per chiedere perdono e per fare un percorso di riconciliazione». Dopo una sessione nel carcere femminile lo scorso gennaio, ora fratel Alain, con tutta l’équipe, sta preparando un altro mese di ritiro, tra aprile e maggio, nella prigione per la detenzione preventiva, dove a volte le condizioni di vita sono ancora più difficili che nel carcere di massima sicurezza. Per tutti, questo mese di riflessione, studio delle Bibbia e approfondimento spirituale è accompagnato da una frase che, nel contesto della prigione, tra persone condannate anche per crimini gravi, risuona – ancor più che altrove – ‘rivoluzionaria’: ‘Dio ti ama non per le tue buone azioni, ma perché è buono’.
Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/ Anna Pozzi)
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