Il direttore dell’ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni, monsignor Nico Dal Molin: “La pastorale vocazionale è chiamata a diventare una scuola di speranza”. Da Nord a Sud, tanti nuovi percorsi nei quali i giovani possono liberamente interrogarsi sul proprio desiderio di vivere per Dio tra i fratelli
Nell’era della comunicazione giunta al traguardo del 3.0, di whatsapp e Capitan Harlock, c’è ancora spazio per il silenzio e la riflessione, e c’è chi sa prendersi del tempo per porsi le grandi domande sul futuro della propria vita. Chi sono? Giovani dai 20 anni in su e le loro domande sono antiche quanto il mondo: cosa fare nella vita? Alcuni hanno anche l’ardire di capire se questa domanda si intreccia con un percorso di consacrazione a Dio per sempre. Ad accompagnarli lungo i sentieri del “grande bivio”, la Chiesa italiana ha schierato “un esercito” di uomini e donne: non sono solo preti, religiosi e suore; al loro fianco lavorano anche molti laici, padri e madri di famiglia. Si sono dati appuntamento a Roma dal 3 al 5 gennaio per il convegno annuale promosso dall’Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni. 550 i partecipanti, in rappresentanza di 130 diocesi. Il tema è riassunto nello slogan “Apriti alla Verità, porterai la Vita” ma la parola che più risuona tra i corridoi della Domus Pacis è “felicità” perché crescere è aderire a un progetto di pienezza e di vita.
“L’esempio è indispensabile”. “Sono stati tre giorni di iniezioni di fiducia e di profezia, uno sprone a guardare in avanti”, racconta al Sir il direttore dell’ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni, monsignor Nico Dal Molin. “Ci sono a livello pastorale nelle diocesi – aggiunge – tante esperienze belle ma che sono poco conosciute e valorizzate. Mi pare che talvolta ci sia la tentazione di vivere di nostalgia. E allora credo che si tratti di accettare la sfida di Papa Francesco ad essere persone positive per proporre ai giovani il volto di una Chiesa che sa affascinare. Il volto di una Chiesa che affascina è il volto di una Chiesa che dà speranza, che non che si mette all’angolo del rimpianto ma sulla frontiera, per aprire orizzonti nuovi. Ecco allora che la pastorale vocazionale è chiamata a diventare una scuola di speranza”. Era stato monsignor Nunzio Galantino, segretario generale ad interim della Conferenza episcopale italiana, nel suo primo intervento pubblico dopo la nomina da parte di Papa Francesco, a lanciare per primo una provocazione importante. “Guardando alla mia esperienza di formatore – ha detto – mi sento di dire che forse una cosa nella quale non mi sembra ci sia sufficiente consapevolezza da parte nostra è che la preghiera va bene ma dobbiamo renderci conto molto di più che l’esempio è indispensabile. Senza esempio da parte delle persone consacrate, le preghiere non vanno da nessuna parte”. Ed aggiungeva: “l’augurio che faccio a tutti quanti noi è quello di sentirci spinti, sulla linea di quanto Papa Francesco ci sta dicendo, a rendere testimonianza con gioia di quello che viviamo dentro di noi”.
Il segreto del buon educatore. Don Michele Gianola è il direttore del Centro diocesano vocazionale di Como. Segue un gruppo di una ventina di ragazzi e ragazze che hanno espresso l’esigenza di capire “se la loro domanda di felicità si può intrecciare con la scelta di diventare preti e consacrate”. Come capire se una vocazione è autentica? “C’è innanzitutto un desiderio che si esprime – risponde il sacerdote – ed una solidità e maturità di un percorso già maturato. E poi la fedeltà nel tempo perché una vocazione è come un seme gettato che ha bisogno di tempo per crescere. Anzi richiede tutta una vita perché una vocazione non è un progetto precostituito ma una storia di relazione con Dio che dura per sempre”. Nessuno qui ha la presunzione di essere “un modello”. Ma che i testimoni siano importanti lo dimostra la storia di Elvira Zaccagnino. Oggi dirige le “edizioni la meridiana” (www.lameridiana.it): un’esperienza editoriale nata nel 1987 a Molfetta (Bari), nel vivace clima di impegno sulle questioni dell’emarginazione, della pace e della nonviolenza creatosi intorno alla coinvolgente figura del vescovo, Antonio Bello. Elvira lo conobbe che aveva 17 anni e ne aveva 27 quando è morto. “Fu per noi – ricorda – un compagno di strada più che un maestro. Ci ha insegnato a scoprire i talenti che avevamo e a giocare la nostra esistenza in modo che venissero fuori. Ci ha fatto innamorare del nostro Sud facendoci vivere questa terra non come un fallimento ma come una possibilità di vita”. Non un caso dunque che il gruppo di lavoro più frequentato durante il convegno romano sia stato quello guidato dalla pedagogista dell’Università di Foggia, Chiara Scardicchio dedicato alla “formazione degli adulti” e quindi degli educatori perché – dice – “molti adulti oggi lo sono solo anagraficamente”, incapaci di “gestire il fallimento e il senso del limite. Educano i figli con delirio di onnipotenza che paradossalmente genera impotenza”. Il segreto del buon educatore è riassunto nel termine “resilienza” che “è quella capacità di trasformare un dolore in apprendimento”. E richiede anche – aggiunge la pedagogista – “la competenza” di “restare alla soglia”. Ma non si rischia di rimanere indifferenti? “Al contrario – risponde la Scardicchio – è il più grande atto d’amore che possiamo fare ai nostri figli: libera dalla presunzione di indicare la strada per lasciare spazio all’azione di Dio”.
Maria Chiara Biagioni per Agenzia Sir