R. – Credo si stia determinando in Italia una situazione di pensiero unico dominante e, conseguentemente, di una prassi morale e culturale – ma più che morale, si potrebbe dire di immoralismo – che viene sostanzialmente giudicata ingiudicabile, quindi che viene di fatto sostanzialmente presentata a tutti i livelli come l’unica mentalità possibile nella nostra società. Chi, per qualsiasi motivo, esercita la sua libertà di coscienza e di espressione non negli ambiti fissati da questa ideologia dominante, viene necessariamente estromesso con tutti i mezzi. Cioè, il diverso – in quanto diverso da quello che io sento, penso, ecc. – deve essere annientato e lo si deve fare con tutti i mezzi. Quindi, in questo senso è veramente una preoccupante limitazione, della quale direi che la maggior parte della gente non si accorge e comincia ad accorgersene adesso, di fronte a questi fenomeni che comunque, pur essendo limitati numericamente, hanno certamente il senso di un grandissimo campanello di allarme.
D. – Che senso ha, secondo lei, oggi, nella cosiddetta “civiltà dei diritti”, difendere ancora una posizione ricorrendo alla violenza, piuttosto che fare la fatica di convincere attraverso la forza delle proprie idee?
R. – Aristotele diceva che quando non si hanno ragioni forti, si ricorre alle mani. Cioè, la violenza è un’alternativa a una difficoltà, per non dire un’incapacità, di dare ragione della propria posizione. Io credo che questo ci debba profondamene interrogare, come cristiani ma ancor prima come cittadini di questo Paese.
D. – Sembra quasi che chi difende il diritto ad altri tipi di unione, diversa da quella della famiglia tradizionale, si senta in certo modo minacciato da manifestazioni che invece sono chiaramente pacifiche. Perché, secondo lei?
R. – Qui ci addentriamo negli ambiti di una psicologia probabilmente molto condizionata dalle esperienze negative del passato, di discriminazione nei confronti di chi non sosteneva, o non si sentiva di sostenere, la morale tradizionale. Io credo che tutto questo rappresenti una specie di punto di fermentazione di atteggiamenti, di reazioni e siamo arrivati agli eccessi opposti. Oggi, chi non sostiene posizioni che mettono in discussione la morale naturale e tradizionale viene sentito come uno che deve essere annientato.
D. – In questi giorni, al Sinodo, i valori della famiglia, come pure le sue ferite, sono al centro dell’attenzione. Qual è il suo auspicio anche in riferimento ai fatti di cui abbiamo parlato?
R. – Il mio auspicio è che la realtà della famiglia venga individuata nella sua crisi. La crisi della famiglia è una crisi epocale, è una crisi antropologica, è una crisi culturale. Non c’è più spazio per quella gratuità che costituisce l’essenza ultima del rapporto tra un uomo e una donna a livello naturale, che nel Sacramento del matrimonio trova la sua definitiva espressione e il suo sostegno. Quindi, come cristiani e in particolare come responsabili della vita ecclesiale, dobbiamo fare un cammino di accompagnamento ma che consenta alle famiglie di riscoprire la loro identità, per poter essere poi coerenti con questa identità. Ho in mente le lucidissime pagine della “Familiaris Consortio”, mi pare al numero 7, in cui San Giovanni Paolo II diceva: “Famiglia, diventa quello che sei”. Credo che la crisi stia tutta qui. Il resto sono conseguenze particolari sulle quali ci si può addentrare, anche in soluzioni che possano essere innovative sul piano pratico o pastorale. Ma la famiglia dev’essere aiutata a riscoprire la sua identità: questa è la crisi delle crisi. Tutte le altre sono conseguenza.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana
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