William Shakespeare, la cui nascita è ricordata il 23 aprile, è conosciuto per aver trasformato il sacro in profano. Il critico letterario Stephen Greenblatt ha dichiarato che “la rielaborazione di materiali religiosi tradizionali in rappresentazioni secolari” è una caratteristica delle opere di Shakespeare. Ma questo non rende Shakespeare un drammaturgo irreligioso — infatti, a volte, quello che il Poeta non dice su Dio la dice lunga sulla fede.
E questo appare chiarissimo nel celebre monologo sulla “quintessenza di polvere” nell’Amleto, che appare quasi una rielaborazione del salmo 8, ma senza Dio. Se mettiamo a confronto i due testi comprendiamo come cambia la nostra prospettiva se ignoriamo il divino. È impossibile provarlo, ma ho il sospetto che è quello che Shakespeare ha voluto dire. Ho il sospetto che lui sapeva tutto quello che perdiamo quando rimuoviamo Dio dal mondo.
Il monologo di Amleto è un’immagine di una bellezza senza pari vista attraverso gli occhi della disperazione. Il principe, afflitto, non apprezza più il buono nelle cose. “Questa meravigliosa macchina, la terra, non mi sembra più che uno sterile promontorio”, sospira, “l’aria, vedete… questo nobile firmamento, questa maestosa volta seminata di stelle, altro più non mi somiglia che una pestilenziale congerie di vapori. Qual capolavoro è l’uomo! … È nullameno che è per me questa quintessenza di polvere?” Tutto quello che Amleto riesce a vedere nello splendore ardente del cielo e nelle prodezze dell’umanità è polvere e aria.
Il monologo fa del marcato parallelismo con il salmo 8. Gli studiosi Peter Moore e Naseeb Shaheen hanno notato questa connessione, ma il suo significato è sottostimato. Sia Amleto che il salmista considerano la terra, poi il cielo e poi il posto dell’umanità nella gerarchia della creazione. Ma quello che Amleto considera “uno sterile promontorio”, porta invece per il salmista la firma di Dio. “O Signore, nostro Dio,quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!” canta il salmista. Dove Amleto vede “una pestilenziale congerie di vapori”, il salmista scorge “il tuo cielo, opera delle Tue dita”. Dove Amleto esclama “qual capolavoro è l’uomo! … Un angelo allorchè opera!”, il salmista pare meravigliato: “che cosa è l’uomo … Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli”. Perché dunque Amleto vede desolazione dove il salmista vede gloria?
Perché Amleto mette Dio da parte. Per il salmista invece l’imponenza della creazione esprime la potenza e l’eccellenza del Creatore. La magnificenza di Dio “sopra i cieli si innalza”. Le stelle sono come “opera delle Tue dita”. E, meravigliosamente, Dio onora l’umanità: “che cosa è l’uomo perché te ne ricordi? … Eppure … gli hai dato potere sulle opere delle Tue mani”. Dio condivide con l’uomo il suo potere per controllare animali e campagne, per governare la natura. Il mondo del salmista è un regno cosmico di cui noi ci troviamo essere eredi. Ma Amleto ignora Dio. E senza le sue fondamenta divine, crolla l’intera architettura luccicante dell’universo del salmo. Amleto è là che esamina le rovine: uno sterile promontorio. Una pestilenziale congerie di vapori. La quintessenza di polvere.
Forse Shakespeare sapeva, o ha percepito, che senza Dio collassa ogni obiettiva moralità e bellezza. La bellezza esiste nella percezione, la moralità nella volontà. Nulla è davvero completo senza una coscienza. Un tramonto non visto è soltanto luce riflessa nell’aria, la sua bellezza consiste nell’effetto che ha in chi lo osserva. Un potente temporale che colpisce e uccide una persona non ha nulla di immorale in sé, accade semplicemente. Ma l’omicidio è un atto immorale, perché un agente con consapevolezza ha preso la decisione di uccidere.
Ma se esistesse soltanto la coscienza umana, quale percezione avrebbe la meglio? Se il cielo apparisse brutto a me, chi sei tu per dire che è meraviglioso? Se l’intera popolazione condonasse l’omicidio, chi avrebbe l’autorità di dissentire? Senza un arbitro definitivo su cosa sia il valore, i folli deliri di Amleto diventerebbero realtà: “Non c’è niente di giusto o sbagliato, è il pensiero che lo rende tale”. La bontà oggettiva esiste soltanto se percepita da una coscienza sovrana che dichiara, inconfutabilmente, che è cosa buona (Genesi 1).
Senza Dio, la visione che Amleto ha del mondo è impotentemente soggetta alle sue emozioni. La natura non è più una luminosa espressione della gloria di Dio, bensì un’insignificante infinità di atomi — una tela bianca la cui bellezza o il cui valore è negli occhi del suo malinconico osservatore. Per il salmista, invece, la natura è incrollabilmente bella e l’uomo è incontrovertibilmente santificato. Se ogni umano sulla terra decidesse che l’omicidio è lodevole e che i tramonti sono ripugnanti, avrebbero tutti catastroficamente torto Perché Dio è vivente, e Dio sa – e lo dichiara – che la vita umana ha una dignità. Che la bellezza è bella. Che la giustizia è giusta.
Non posso avere alcuna certezza su cosa credesse Shakespeare. Ma penso che sapesse dosa stesse facendo quando ha scritto il “salmo senza Dio” di Amleto. Penso comprendesse che, senza fede, tutto il valore che c’è nel mondo sarebbe ciecamente dipendente dai nostri umori e capricci umani. Shakespeare è morto nello stesso giorno in cui probabilmente è nato, il 23 aprile. Ciò che deve ancora morire è la sua poesia, che è ricca in bellezza e vivente in verità. Queste due cose durano per sempre, perché durano negli occhi di Dio. E penso che questo Shakespeare lo sapesse bene.
[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]
Redazione Papaboys (Fonte www.iltimone.org/Spencer Klavan)
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