Si tratta di concezioni teologiche che vanno decodificate e applicate alla vita
Accingersi a leggere il libro dell’Apocalisse non è impresa facile; infatti, ci si imbatterà in ardue difficoltà interpretative; una di queste riguarda certamente il linguaggio simbolico che veicola il messaggio del libro. Questa difficoltà, seppur a livelli diversi, accomuna i non addetti ai lavori come gli studiosi, prova ne è la molteplicità di interpretazioni che nella storia dell’ esegesi sono state date a determinate immagini simboliche. Quest’ampia gamma interpretativa se da una parte è inevitabile, dall’ altra è però rivelatrice di un mancato approfondimento delle caratteristiche peculiari del linguaggio simbolico di questo libro così misterioso e affascinante. Un contributo notevole in questa direzione è stato apportato dal noto specialista, padre U. Vanni; vi faremo perciò ampio riferimento in questo breve articolo.
Perché il linguaggio simbolico?
Il linguaggio simbolico non è un fenomeno nuovo per la Bibbia, le visioni simboliche di memoria profetica (cf. Am 7-9, Zac 1-6), come alcuni capitoli del libro profetico-apocalittico di Daniele (cf. Dn 2, 4, 7, 8, 10) hanno certamente ispirato l’autore dell’Apocalisse che vi ha fatto riferimento in modo originale. Il dato inedito del nostro libro consiste nel fatto che il linguaggio simbolico diviene costitutivo della teologia dell’Apocalisse.
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Non si può pertanto giungere ad una buona interpretazione teologica senza prima aver chiaro quale ruolo gioca tale espediente letterario nell’economia globale dello scritto.
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Dobbiamo porci previamente una domanda fondamentale: perché il genere letterario apocalittico usa un linguaggio simbolico anziché quello realistico? Pensiamo che gli elementi in gioco siano almeno tre:
1) Per la realtà trascendente di cui si parla. L’Apocalisse presenta una teologia della storia caratterizzata dalla lotta tra la santa Trinità e le varie manifestazioni storiche del demoniaco. Il linguaggio simbolico, avendo una valenza spiccatamente evocativa rispetto a quella propriamente descrittiva del linguaggio realistico, si rivela così propriamente adeguato per esprimere una realtà trascendente, sia essa di segno positivo che negativo, che sfugge di per sé, in qualche misura, alle capacità umane. L’autore dell’Apocalisse per parlare della presenza e dell’azione di Dio, dell’Agnello e dello Spirito nella storia degli uomini, offre così delle suggestioni fortemente evocative veicolate, appunto, mediante la forza dell’immagine. Lo stesso, come già detto, vale per il demoniaco organizzato nella triade satanica – il dragone (il demonio) e i due mostri (le sue manifestazioni storiche) – che tenta, grottescamente, di scimmiottare la santa Trinità.
2) Per il modo precipuo di presentare ciò che caratterizza la storia degli uomini. La teologia della storia proposta dall’Apocalisse è, chiaramente, una delle teologie presenti nel NT, non deve perciò essere assolutizzata ma semplicemente giustapposta alle altre. Tuttavia, non è forse azzardato affermare che è il libro neotestamentario che più di ogni altro si occupa della concretezza della storia offrendone chiavi di lettura particolarmente suggestive (cf. per esempio, il settenario dei sigilli: 6,1-17). L’ Apocalisse fa, infatti, esplicito riferimento alle strutture socio-politico-economiche che determinano in gran parte il destino degli uomini. Queste strutture sono viste dall’Apocalisse in modo radicalmente negativo: rappresentano, infatti, lo strumento privilegiato dell’orditura intessuta dalla triade satanica per distogliere gli uomini dall’adorazione dell’unico vero Dio e dell’ Agnello e illuderli che la vita consiste essenzialmente nel godimento dei beni transeunti. L’uso del linguaggio simbolico, grazie alla sua frangia di indeterminatezza, permette così una «ri-Iettura» continua del senso dell’immagine simbolica, rilettura esigita proprio dal mutare del processo storico; in altre parole il simbolo offre la possibilità di una perenne «attualizzazione» del messaggio apocalittico riguardo al ruolo che tali strutture giocano nel decorso della storia. La presentazione della «città di Babilonia» (cf. 17-18) – simbolo sintetico del «sistema terrestre», chiuso alla trascendenza – offre alcune feconde «categorie» per una lettura profonda della realtà sociale in cui la Chiesa è chiamata a vivere in un’epoca qualsiasi. Anzi, proprio il processo storico costituisce la condizione di possibilità per esplicitare incessantemente la fecondità dell’immagine simbolica. In ogni epoca la comunità di fede riempirà questa sorta di «contenitore vuoto» che è l’immagine simbolica dando un nome a quelle strutture politico-economiche che «ora e qui» incarnano la triade satanica.
3) Per il coinvolgimento del destinatario. Mentre il linguaggio realistico appella direttamente l’intelligenza del destinatario, il linguaggio simbolico sprigiona una sua forza propria che tende a coinvolgere tutta la persona: intelligenza, fantasia, emotività. Questa «reattività» richiesta dall’immagine simbolica al destinatario viene collocata dal libro nell’ambito liturgico (cf. 1,3). È un aspetto tipico della liturgia quello di stimolare i partecipanti a vivere da protagonisti quello che si sta celebrando. Il linguaggio simbolico non fa che enfatizzare questo tratto proprio dell’esperienza liturgica: chi ascolta deve prestare attenzione, meditare, fermarsi in silenzio, comprendere, prendere una decisione che ne orienti la prassi, custodire quanto raccolto per continuare a riflettere in vista del discernimento da operare nella realtà quotidiana. Questo coinvolgimento è stimolato dall’autore rendendo partecipe l’assemblea liturgica delle visioni di cui egli è stato gratificato (cf. 1,10). Si tratta di una vera e propria esperienza «transitiva» (cf. l’iterato passaggio dal «e vidi»… «ed ecco» = lett. «e vedi»: 4,1-2) che permette, da una parte, all’assemblea di rivivere quel rapporto vivo e coinvolgente col Cristo risorto sperimentato in prima persona da Giovanni (cf.1,11.19); dall’altra, la stimola a leggere in profondità, con un acume spirituale – con sapienza -, il senso della storia presente mediante la decodificazione delle immagini simboliche e l’applicazione delle loro «equivalenze realistiche» alla realtà in cui la comunità è immersa. Il messaggio simbolico dell’Apocalisse esige dunque un destinatario che voglia lasciarsi coinvolgere dal messaggio che riceve, attivo, pronto, sveglio; solo a questa condizione l’esperienza apocalittica sortirà l’effetto desiderato.
I «tipi» della simbologia dell’Apocalisse
La simbolica dell’Apocalisse presenta alcune costanti che, una volta individuate, permettono al lettore di operare la decodificazione del simbolo con una certa disinvoltura. Li evidenziamo brevemente.
Il simbolismo cosmico. Questo simbolismo trova ampia applicazione nel libro, si parla ripetutamente di stelle, sole, luna, cielo, ecc. In modo abbastanza generale possiamo affermare che esso tende a evocare una dimensione di trascendenza comune, anche se in modo diverso, alla sfera del divino come a quella del demoniaco. Il «cielo» esprime così la zona ideale propria di Dio (cf. 3,12); «stella» può indicare l’angelo della Chiesa (cf. 1,20) come una realtà demoniaca (cf. 9,1) o Cristo stesso (2,28; 22,16). In sintesi, il simbolismo cosmico mira a evidenziare l’incidenza determinante della trascendenza nell’esperienza storica degli uomini.
Gli sconvolgimenti cosmici. La presenza, oseremo dire strategica, di determinati fenomeni atmosferici mira a evocare un fermento di novità che, mediante l’azione trascendente di Dio, preme nella storia e la spinge verso un compimento definitivo. È appunto il caso del riferimento alla formula quasi stereotipa: «Folgori, clamori, tuoni e terremoto» (4,5; 8,5; 11,19; 16,18).
Il simbolismo teriomorfo. Questo tipo di simbolismo è particolarmente importante per la teologia dell’Apocalisse, basti pensare che il Signore Gesù viene rappresentato con la figura dell’«Agnello immolato ritto in piedi» (5,6) e il demoniaco come un «drago» (12,3) al cui seguito si pongono due «mostri» che escono dal mare (13,1.11) – il potere politico-economico e la propaganda di stato a servizio dell’ideologia -. Caratteristica tipica del simbolismo teriomorfo è di indicare una realtà trascendente che sfugge a un tentativo di comprensione chiara e distinta da parte dell’uomo: il bene promosso dalla santa Trinità come il male ordito dalla triade satanica sono sottoposti ineludibilmente a una certa opacità. Ciò che l’ autore vuole comunicare con forza alla sua Chiesa è che nonostante questi «vuoti» di comprensibilità da parte dell’uomo il corso della storia avrà un esito positivo per la vittoria conseguita, paradossalmente, dall’«Agnello immolato» (19,11.16), anche se nel frattempo le forze del male, condannate alla sconfitta (12,11), possono apparire vincenti (11,10). Il simbolismo cromatico. Anche i colori svolgono una funzione particolare all’interno della trama simbolica del libro. In questo caso il colore, anche se come gli altri simboli rimanda ad altro da se, svolge la sua funzione proprio in quanto colore, premendo cioè sulla sensibilità visiva del destinatario. In primo luogo il «bianco»: indica la trascendenza divina (Dn 7,9) realtà propria del Risorto (1,14.18) partecipata ora ai credenti (3,4; 4,4; 6,11). Gli altri colori, rosso, nero, verdastro, ecc., possono essere compresi nella loro specificità solo grazie al contesto immediato. Come esempio basti richiamare il colore dei cavalli che appaiono nello scioglimento dei primi quattro sigilli: il cavallo «rosso fuoco» (cf. 6,4) evoca una situazione di scontro tra gli uomini tipico della guerra; quello «nero» (cf. 6,5) una dimensione «oscura» qual è l’ingiustizia sociale; infine, quello «verdastro» (cf. 6,7) fa riferimento esplicitamente, ma più in generale rispetto agli altri colori, alla morte, l’esperienza di radicale caducità propria di ogni uomo. Il simbolismo aritmetico. L’autore dell’ Apocalisse si serve anche dei numeri per veicolare il suo messaggio. Caratteristica di questa costante simbolica è il passaggio che il lettore deve fare dalla valenza «quantitativa» del numero a quella «qualitativa». Per esempio, quando si vuole indicare l’identità del popolo di Dio si usa la cifra 144.000 (14,1-5): essa è, con buone probabilità, il risultato della moltiplicazione di 12 12 1000. Il 12, richiamato due volte, evoca l’unità storico-salvifica tra le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli, mentre il numero 1000 è il segnale tipico del tempo proprio di Dio e del Cristo che si fa già presente nella storia (20,1-6). Un altro esempio ci viene dalla ripetizione quasi ossessiva del numero 7 e della sua metà 3 e 1/2. Il primo è un indicatore di totalità -sette Chiese, sette sigilli, sette trombe, sette coppe -, mentre il secondo segnala una parzialità; quando si riferisce al tempo viene espressa anche attraverso i giorni [1260] o in mesi [42]. L’indicazione di un tempo parziale può avere sia una valenza positiva, indicando un tempo definito (cf. 11,3; 12,6), che negativa, indicando l’ineluttabile fallimento cui sono destinate le forze del male (6,11; 20,3).
Il simbolismo antropologico. Abbiamo lasciato per ultimo questo tipo di simbolismo per accennarvi appena data la grande quantità di elementi che troviamo in questo ambito specifico: il vestiario, l’atteggiamento del corpo (in piedi, seduto, ecc.), la relazione tra gli uomini (la città) e quella degli uomini con Dio (il culto), sono solo alcune delle costanti simboliche antropologiche presenti nel libro. Basti, quindi, un esempio: quello delle vesti. L’autore fa indossare sia a Cristo sia ai credenti delle vesti bianche per rivelarne l’identità profonda; la veste rende così esplicito ciò che non appare. Sia Cristo che i credenti possono e devono essere compresi nella loro identità e dunque nella loro missione a partire dalla loro veste. Lo stesso abito (himàtion), per esempio, viene indossato da Cristo (19,16).e dai cristiani (3,4; 16,15) a indicare la compartecipazione della vita divina propria della resurrezione, e, di conseguenza, l’impegno che li accomuna nella missione-testimonianza. Se Cristo ha scritto sulla sua veste il titolo: «Re dei re e Signore dei signori» (19,16), i credenti sono chiamati ad apportare il loro contributo all’instaurarsi della signoria dell’Agnello grazie alla loro vigile testimonianza: «Beato chi veglia e custodisce le sue vesti» (16,15). La strutturazione del simbolo L’analisi delle immagini simboliche conduce all’individuazione di una triplice «struttura simbolica» che deve essere accuratamente «smontata», elemento per elemento, se si vuol raggiungere l’autentico messaggio dell’autore. Li presentiamo con tre esempi: Struttura coerente. I quattro cavalli del settenario dei sigilli (6, 1-8). I tre «elementi» della «struttura simbolica» sono i tre diversi tipi di simbolismo: (a) teriomorfo: cavallo; (b) cromatico: bianco; (c) antropologico: cavaliere, arco, corona, vittoria. L’interpretazione conduce alla seguente equivalenza realistica: la forza della trascendenza divina, non pienamente verificabile per mezzo delle facoltà umane – simbolismo teriomorfo -, immette nella storia il dinamismo proprio dell’energia della risurrezione – simbolismo cromatico – conducendola verso un esito positivo – simbolismo antropologico della vittoria (cf. 19,16) -. Struttura spezzata. La presentazione di Cristo risorto (1,12-16). Vi sono dei «vuoti» tra i vari elementi simbolici che devono essere «riempiti» dall’impegno interpretativo del destinatario. Quando, ad esempio, si dice che il «Figlio dell’uomo sta in mezzo ai candelabri» (1,13) si deve fare uno sforzo interpretativo tendente a colmare la lacuna descrittiva: si dovranno disporre i sette candelabri come in cerchio e il Figlio dell’uomo ne occuperà il centro; l’equivalenza realistica indica la presenza di Cristo risorto in mezzo alla sua Chiesa, soprattutto durante l’azione liturgica. Dopo questa pausa integrativa si potranno disporre le altre equivalenze realistiche senza sforzi interpretativi particolari. Al v. 16 c’è di nuovo un «vuoto» da colmare: «Avente sette stelle nella mano»; questa miscela di simbolismo cosmico-aritmentico e antropologico appare eterogenea e non è accolta subito nella mente. Occorre una nuova pausa. I singoli elementi devono essere elaborati nelle loro equivalenze: il quadro che ne risulta è intellettuale-teologico: il Cristo risorto garantisce con la sua energia (tiene nella destra) tutta (sette) la dimensione trascendente della Chiesa (stelle). Così è della «spada affilata che esce dalla bocca»; la difficoltà che presenta tale rappresentazione fantastica spinge a una elaborazione intellettuale dei singoli elementi simbolici: Cristo indirizza continuamente la sua parola alla Chiesa, una parola che ha un’incisività tutta particolare (spada). Anche la frase che segue, la «faccia di Cristo risplendente come il sole», non è facilmente componibile con la spada che esce dalla bocca. Si ha, quindi, un’evidente frattura con ciò che precede: la spada che esce dalla bocca deve essere come «cancellata», lasciando la fantasia sgombra per accogliere la nuova immagine con tutta la sua forza espressiva. E questo il modo più comune con cui l’autore costruisce i suoi simboli: ogni singolo elemento ci si presenta allo «stato grezzo», deve essere decodificato ed elaborato; tra l’uno e l’altro abbiamo una discontinuità fantastica che presenta dei «vuoti» che esigono un’interpretazione. Ogni elemento, dopo essere stato interpretato deve essere messo da parte, e così via. In questo caso l’interpretazione eccede sull’espressione simbolica.
Struttura ridondante. L’uva gettata nel tino dell’ira di Dio (14,19-20). Il sangue che esce dal tino non è un’immagine conseguente – la continuità fantastica è interrotta -: tra il vino, il tino dell’ira e il sangue ci sono degli spazi vuoti da colmare (simbolismo spezzato). Il simbolismo antropologico dell’uva si riferisce alla maturazione del male nell’umanità; il tino si riferisce, sempre nell’orizzonte del simbolismo antropologico, al coinvolgimento di Dio nella vicenda umana; e il sangue, ulteriore elemento del simbolismo antropologico, riguarda l’annientamento di tutto il male, dei nemici. Ciò che segue è però refrattario a un’interpretazione: «Ne uscì sangue dal tino fino all’ altezza dei morsi dei cavalli per uno spazio di 1600 stadi» (14,20b). L’autore ha voluto, mediante questa ridondanza, solo accentuare quanto detto prima, dando un’impressione della potenza spaventosa di Dio, com’è espressa dalla quantità del sangue. Così in 9,16 la ridondanza iperbolica del numero crea solo un’impressione, non esprime un significato. Anche in 21,19-20 l’indicazione delle diverse pietre preziose con cui è costruita la città santa ripetuta per ben dodici volte indica il «valore» di Dio che comunica la sua gloria alla città. La ridondanza, anche qui, moltiplica il significato di fondo. Troviamo, al contrario del secondo caso, un eccesso della simbolizzazione sull’interpretazione. Conclusione Il simbolismo dell’Apocalisse determina soprattutto il suo tipo di teologia. Se è possibile elaborare formulazioni concettuali per esprimerla, è pur vero che esse per l’Apocalisse sono astrazioni, sia pure legittime. Lo specifico dell’Apocalisse consiste nel fatto che le sue concezioni teologiche sono espresse creativamente mediante il simbolo da decodificare e applicare alla vita. Siccome l’interpretazione del simbolo esige un coinvolgimento di tutta la persona, con una creatività interpretativa che la sintonizza con quella dell’autore e con tutto il peso della concretezza della storia, la teologia specifica dell’Apocalisse sarà quella che prenderà corpo nel soggetto decodificante e ne recherà l’impronta. Simbolo forgiato creativamente dall’autore, decodificazione operata dal destinatario per applicarne l’equivalenza realistica al contesto storico, sono i tre aspetti che compongono il triangolo ermeneutico che segna la specificità della teologia dell’Apocalisse.
di Marcello Marino
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