Il sinodo appena concluso è partito da questo sguardo di Gesù sulla famiglia, che ha dietro di sé quella in cui egli stesso è nato, composta da Maria e Giuseppe, uniti in nome di Dio, per dare al figlio dell’Altissimo carne, casa, pane e amore. Un nucleo familiare circondato da parenti e cugini, chiamati fratelli e sorelle (cfr. Marco, 3, 31; 6, 3), in cui Gesù è cresciuto e da cui si è congedato, per rivolgersi alla più ampia comunità di discepoli, germe della sua futura Chiesa: «Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli!”» (Marco, 3, 34). A questa nuova famiglia allargata ha infine dato come madre la sua, sotto la croce (cfr. Giovanni, 19, 27), al termine di un cammino iniziato con le prove impegnative in cui tante famiglie possono rispecchiarsi. Essere concepito prima del matrimonio ufficiale, col pericolo di ritrovarsi figlio di una madre ripudiata (cfr. Matteo, 1, 18-19), e rischiare l’infanticidio, dovendo migrare lontano dalla propria terra (cfr. Matteo, 2, 13.16), non sono state certo esperienze irrilevanti; anche qui possiamo riconoscere la straordinaria normalità della santa famiglia di Nazaret, che assomiglia a molte delle nostre famiglie di oggi.
Fin da piccolo Gesù «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Ebrei, 5, 8); da Maria e Giuseppe apprese la forza e il coraggio di rimanere insieme nelle prove; grazie a queste esperienze fu pronto ad annunciare la sorprendente potenza di Dio che sa tenere insieme ciò che Egli ha unito. Come ospite discreto allo sposalizio di Cana, fu pronto ad allietare gli invitati a mensa con il vino migliore (cfr. Giovanni, 2, 1-10); perciò, quando ha pensato alla festa del regno di Dio, tanto insistentemente annunciato, l’ha immaginata come il banchetto nuziale del figlio del re (cfr. Matteo, 22, 2-14), alludendo chiaramente a se stesso come allo sposo che libera i suoi amici dalla tristezza (cfr. Marco, 2, 19) e domanda di essere atteso con la lampada accesa (cfr. Matteo, 25, 1).
Il sinodo è partito da qui, da questo sguardo vero, buono e bello di Gesù sulla famiglia che ha sperimentato e che ha desiderato per tutti coloro che vi sono chiamati, riferendosi a un principio da cui era persino esclusa la concessione mosaica del ripudio (cfr. Matteo, 19, 8). Ma poi i padri sinodali si sono domandati: e se l’uomo separa ciò che Dio ha unito? Cosa succede alle persone? Quale sguardo Gesù rivolge al loro progetto fallito, al disegno infranto, al sogno distrutto?
Gesù si è trovato in mezzo alla tragica scena dell’ormai imminente lapidazione di una donna infedele (cfr. Giovanni, 8, 1-11), ha intrattenuto un lungo dialogo con una convivente samaritana (cfr. Giovanni, 4, 5-42). Cosa ha fatto Gesù? Come si è comportato? Dai vangeli sappiamo che egli è stato flessibile e fermo, al tempo stesso. Flessibile con l’adultera, col dirle «neanch’io ti condanno»; fermo, invitandola a «non peccare più». Flessibile con la samaritana, quasi giustificandola: «Se tu conoscessi il dono di Dio», eppure fermo, mettendola di fronte a se stessa: «Hai detto bene: non ho marito». Di fronte a un lucignolo fumigante e a una canna incrinata (cfr. Matteo, 12, 20), si è chinato come il medico che cura i malati invece dei sani (cfr. Marco, 2, 17), versando sulle loro ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza (cfr. Luca, 10, 34).
Dopo aver considerato la bellezza dei matrimoni riusciti e delle famiglie solide, e aver apprezzato la testimonianza generosa di coloro che sono rimasti fedeli al vincolo pur essendo stati abbandonati dal coniuge, i pastori riuniti in sinodo si sono chiesti — in modo aperto e coraggioso, non senza preoccupazione e cautela — quale sguardo deve rivolgere la Chiesa ai cristiani le cui famiglie sono incompiute (coloro che ancora non sono stati uniti da Dio), imperfette (coloro che sono uniti solo di fronte agli uomini) e ferite (coloro che hanno separato ciò che Dio ha unito). Di fronte alla varietà delle situazioni — che sono tante quante le esistenze delle persone —, è possibile riconoscere negli occhi di Gesù quella luce che splende anche nelle tenebre più fitte e rischiara ogni uomo (cfr. Giovanni, 1, 5.9).
La pazienza nell’ascoltare chi parla, l’umiltà di porsi sotto lo sguardo di Gesù, il coraggio di sostenere il confronto sono state le tre vere sfide che il sinodo ha dovuto sostenere, nel momento in cui si prestava ad affrontare le sfide pastorali sulla famiglia oggi. Nell’aula si è fatta esperienza di franchezza, rispondendo all’invito di Papa Francesco rivolto ai presenti fin dall’inizio dei lavori, il 6 ottobre: «Bisogna dire tutto quello che nel Signore si sente di dover dire: senza rispetto umano, senza pavidità. E, al tempo stesso, si deve ascoltare con umiltà e accogliere con cuore aperto quello che dicono i fratelli. Con questi due atteggiamenti si esercita la sinodalità». La discussione avvenuta al sinodo ha valore, anzitutto, per il fatto stesso di essere stata possibile. Lungi dalla pretesa di possedere spazi, si è trattato di iniziare processi (cfr. Evangelii gaudium, 223), quelli dell’autentica collegialità, in cui praticare un aperto confronto significa «risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (ivi, 227).
Questo prerequisito fondamentale ha consentito di affrontare, come quaestiones disputatae, alcune delicate sfide pastorali. Fatta salva la dottrina sul sacramento del matrimonio, si trattava di prendere in considerazione gli argomenti a favore e contro le ipotesi praticabili, compatibili col magistero sicuro della Chiesa in materia matrimoniale e familiare.
In verità, la metodologia della quaestio disputata, diffusamente praticata in epoca medievale, trova in san Tommaso d’Aquino il grande maestro. Pur dedicandosi a sviscerare ogni aspetto della questione, questi era tuttavia ben consapevole della provvisorietà anche delle migliori formulazioni: actus autem credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem (“l’atto del credente non si esaurisce nella espressione verbale ma si rivolge alla realtà”, cioè al mistero che la trascende, Summa theologiae, II-II, q. 1, a. 2, ad 2).
Affrontare dunque le questioni non significa mettere in dubbio la verità della fede, ma piuttosto contemplarla con occhi nuovi. E sono quelli di Gesù riflessi nello sguardo della Chiesa, la cui primaria intenzione è preoccuparsi di essere fedele al suo Signore, per il bene integrale di tutti gli uomini, a partire dai suoi figli più fragili.
Servizio di Maurizio Gronchi
L’Osservatore Romano, 26 ottobre 2014.
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