«Io come parroco assisto a tanti miracoli ogni giorno. Dio non ci fa mai mancare la sua tenerezza». Padre Ibrahim Sabbagh non parla metaforicamente e la prova di quello che dice sta nel fatto che non ha paura di morire. Il frate francescano vive ad Aleppo, dove ha accettato di recarsi nel 2014 in piena guerra per guidare una parrocchia. La situazione della seconda città più importante della Siria è così grave che il cardinale Angelo Scola l’ha definita la «Sarajevo del XXI secolo». Ogni giorno nella parte della città dove vivono i cristiani, sotto il controllo del governo, divisa da quella in mano ai ribelli, cadono bombe e razzi. Nel numero di Tempi in edicola settimana scorsa è presente un ampio servizio sulla “Sarajevo del XXI secolo”, con testimonianze dalla città martoriata. Di seguito, riportiamo la testimonianza di padre Ibrahim, per il quale la morte è diventata un’esperienza quotidiana, «regna il terrore», eppure «ci sono fiori che nascono e crescono sulla palude della guerra».
Perché ad Aleppo regna il terrore?
Noi sappiamo che la città di Aleppo è circondata, ma queste bombe, questi regali di morte che cadono dal cielo, sono il male peggiore perché non fanno differenza fra un bambino, un anziano, un soldato, un uomo armato o non armato. Quindi regna il terrore.
Perché subite questi attacchi?
Il 15 giugno abbiamo subito un attacco molto pesante, con decine di morti e centinaia di feriti, perché l’inviato dell’Onu, Staffan De Mistura, ha incontrato il presidente Assad. Di solito i bombardamenti si fanno più forti durante queste visite, perché alcuni gruppi ribelli non vogliono la pace e manifestano così questa mancanza di volontà. Siamo in una fase molto difficile, ci aspettiamo il peggio.
I cristiani hanno paura?
Sì, sono spaventati, come le altre minoranze. Non vi potete immaginare i casi di terrore che dobbiamo trattare ogni giorno. Due settimane fa una bomba è caduta vicino ad una farmacia, uccidendo il farmacista, un uomo di 45 anni. La mattina dopo è venuta da me una donna: passava davanti alla farmacia quando è caduta la bomba, ma è sopravvissuta. Mi ha detto che non riesce più a dormire, è sfinita ma deve lo stesso alzarsi per andare al lavoro. Sono cose piccole ma quotidiane e diventano sempre più pesanti per chi soffre questa tortura da quasi cinque anni.
Perché è tornato in Siria? Che cosa può fare un sacerdote in mezzo alla guerra?
Noi pastori cerchiamo di consolare la nostra gente con la parola, l’assistenza spirituale e anche quella materiale, per quanto possiamo. Cerchiamo di alleggerire un po’ la croce a queste persone, anche se non possiamo portarla via. Cerchiamo in ogni modo di manifestare la presenza del Buon pastore, della tenerezza di Dio, perché la gente ne ha bisogno. Noi abbiamo anche organizzato un oratorio per i bambini, che ora sono più di 120 e vengono quattro volte la settimana; abbiamo preparato al matrimonio nove coppie che si stanno sposando in chiesa con grande coraggio e vogliono iniziare un cammino di nuove famiglie nonostante tutte le difficoltà che ci sono. Aiutiamo anche i poveri, i senza tetto, i bisognosi.
Dio però non sembra molto tenero con voi.
Per il futuro non si vede una via d’uscita, non sappiamo come finiremo, eppure siamo pieni di speranza che questo mondo cristiano, che qui ha già sofferto tante persecuzioni, riuscirà a veder passare anche questa crisi attuale, anche queste ondate di jihadisti e a resistere, rimanendo qua per testimoniare la presenza di Cristo.
Tanti scappano.
Alcuni dall’Occidente pensano e ci consigliano di organizzare un’emigrazione comune. Noi, come chiesa locale, siamo contrari perché è il Signore che ha voluto piantare la nostra presenza, questo albero di ulivo, qui in Oriente, in Siria. Noi oggi non possiamo sradicare questo albero e piantarlo in un altro pianeta o in un altro continente, come se fosse la stessa cosa. Non ci sentiamo di avere questo diritto. Sicuramente ci sono casi eccezionali, ma è Dio che ci ha voluti qua, a Lui spetta la decisione di farci andare via.
Lei spera ancora in una risoluzione positiva del conflitto?
Io dico sempre alla mia gente: noi vinceremo questa guerra, questa crisi con la preghiera, prima di tutto, e con la nostra carità e con la comunione fra di noi.
Le cose però, anche ad Aleppo, non si stanno mettendo molto bene.
Guardando con gli occhi del corpo, il futuro è molto nebuloso, ma allo stesso tempo siamo pieni di fede e di speranza e con gli occhi della fede riusciamo a vedere una via d’uscita. Io come parroco assisto a tanti miracoli ogni giorno. Quando sono caduti molti missili e bombe alla metà di aprile, tante abitazioni ed edifici sono andati distrutti o semi-distrutti: noi ci aspettavamo centinaia di morti in tutta la zona cristiana, ma il numero dei morti è stato di 12 e pochi feriti. Per me questo è stato un miracolo: ci si aspetta sempre il peggio ogni giorno, ma ogni giorno arriva sempre il minimo di quel peggio che ci aspettavamo. Questo è già un grande miracolo e non è il solo.
Cioè?
Io assisto anche fra me e me a tanti miracoli: ogni volto che penso o prego per qualcuno che ha bisogno di cibo, ma non abbiamo niente da dargli, subito arriva qualcuno a dirmi: è arrivato del cibo da distribuire alla gente. Quando penso o prego per una famiglia che ha bisogno di pagare l’affitto, o per una donna che deve partorire e deve coprire delle spese, subito arriva qualche dono della provvidenza per colmare questo bisogno specifico. Ecco perché non smettiamo di ringraziare il Signore: nonostante il male a cui assistiamo ogni giorno e che vediamo con i nostri occhi, non ci manca questa presenza tenera del Signore.
Aleppo un tempo era un modello di convivenza religiosa. E oggi?
La situazione è molto buona. Qui, come è sempre stato anche in passato, ci incontriamo tutti insieme, anche con i sunniti, parliamo di tutto e collaboriamo per il bene del paese. Le nostre associazioni aiutano anche i musulmani, per rispondere ai loro bisogni. Non è qualcosa di cui ci vantiamo, per noi è un dovere perché è parte dell’insegnamento di Gesù. Stiamo davvero eccellendo e progrediamo nella collaborazione tra noi e con le altre confessioni.
A sentirla parlare, quasi non sembra che Aleppo sia sconvolta dalla guerra.
Ci sono due fiori che stanno nascendo e crescendo forti sulla palude della guerra. Il primo è questo: grazie alla sofferenza, ad Aleppo la nostra comunità cristiana è più fraterna, anche con gli altri riti e i musulmani. Il nostro è il vero ecumenismo, semplice, pratico che si costruisce ogni giorno nel trasmettere la presenza del Signore nel campo della carità e nel vivere insieme in una società compatta e unita. L’ecumenismo intellettuale, invece, degli studi, dei libri, dei convegni è destinato al fallimento.
E il secondo fiore?
Guardando al futuro, vedo che questa pianta del cristianesimo, che riflette la presenza di Dio nella storia e in Siria, è molto debole, piccola e delicata, ma tutte queste tempeste non riescono a devastarla. Questo è il più grande miracolo al quale assisto. Mi accorgo cioè di quanto sia facile eliminarci fisicamente, ma vedo che nessuna forza riesce a calpestare, soffocare, devastare questa piccola pianta: questo dimostra che Cristo è presente e provvede.
Di Leone Grotti per Tempi
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