Grandinate di colpi di mortaio, oppure un diluvio mediatico da social network con accuse e video choc anche in questo Natale. È una coltre di terrore che avvolge chiunque viva in Siria. Una coltre fatta pure di incertezza, di perenne dubbio se la granata che ti ha sfiorato è stata un accidente o una misurata vendetta di chissà chi. Una coltre, come quel panno che gli estremisti hanno costretto a mettere sulle croci e sulle statue negli ultimi villaggi cristiani nella valle dell’Oronte. Sotto tutte queste coltri, le nuove catacombe.
Gli ordini dei miliziani qaedisti, nei pochi villaggi cristiani ancora abitati vicino all’Oronte, sono tassativi: «Tutte le croci debbono sparire, è vietato suonare le campane, le donne non possono uscire se non velate, tutte le statue debbono sparire». Il rischio è la ritorsione. È la cappa del fondamentalismo islamico, da mesi subentrato all’anima laica e liberale della prima opposizione nelle zone in mano alla rivolta. Una moneta cattiva che ha scacciato quella potenzialmente buona delle prime manifestazioni popolari, mentre il regime autore di raid quotidiani sui civili, si erge a paladino dell’ordine e a tutore, un po’ troppo interessato, della minoranza.
Sono i cristiani di Siria, sempre più vaso di coccio fra vasi di ferro. Sono le nuove catacombe. Ma non si deve fare «di ogni erba un fascio», ammonisce una fonte della Chiesa siriana sotto anonimato: così nei dintorni di Latakia riferiscono che il parroco ha avuto il coraggio di guardare in faccia il capo delle milizie. Ha accettato di coprire i simboli cristiani, ma in cambio riesce a svolgere le liturgie senza «che ci tocchino un capello ». Anzi, il dialogo starebbe dando buoni frutti anche per rintracciare alcuni rapiti.
Sono le nuove catacombe, in cui si deve sopravvivere tra apparente normalità e l’ansia che il futuro sia solo vuoto. Come a Maalula, il villaggio simbolo dei cristiani dove si parlava ancora aramaico. È un deserto silenzioso. Nessun pellegrino, nessuna liturgia in vista del Natale. Si è combattuto fino a pochi giorni fa: è almeno la terza volta che il fronte attraversa, come un perfido aratro, il villaggio dei cristiani. A settembre gli attacchi dei ribelli, poi la riconquista dell’esercito. Infine, in questo dicembre, la nuova controffensiva dei gruppi qaedisti nel villaggio scavato nella roccia a una cinquantina di chilometri da Damasco.
L’ultimo grido mediatico, prima di questo lunghissimo silenzio di Natale, è stato il video di suor Pelagia Sayyaf, la superiora del monastero siroortodosso di Mar Taqla (Santa Tecla) ripresa dalla vicina città di Yabrud: «Stiamo bene» e riceviamo un «ottimo trattamento». Prelevate a forza il 2 dicembre, le religiose avevano lasciato intendere una possibile liberazione entro due giorni. Speranze deluse mentre numerose fonti diplomatiche hanno confermato successivi contatti. «Un sequestro anomalo, diverso da quello degli altri religiosi», forse con l’intento di togliere la comunità monastica dalla linea del fronte. Ma c’è pure chi ipotizza richieste di riscatto.
Ma più che persecuzione è un senso di nichilismo, di abbandono, di incertezza a paralizzare. «Quando ti cade un mortaio dentro casa non sai mai se eri tu il deliberato bersaglio o se è solo un incidente collaterale». E ormai ogni famiglia, cristiana o musulmana, ha un morto da piangere o un disperso da ricordare. Per questo chiese, conventi e semplici famiglie diventano inconsapevoli bersagli: di una persecuzione o di una furia omicida. Comunque bersagli. Eppure anche a Damasco, al di là di ogni settarismo e odio politico, sarà Natale: un maxischermo manderà in diretta il messaggio “Urbi et orbi” di papa Francesco.
Nessuno, al di là delle inevitabili speculazioni politiche, ha dimenticato l’incredibile mobilitazione mondiale della veglia di preghiera dello scorso 7 settembre. Ma sarà Natale anche nel silenzio delle carceri, nei tuguri dei rapiti – dove da 5 mesi è prigioniero pure padre Paolo Dall’Oglio. Sarà Natale nel gelo delle tende dei profughi. «Uno tsunami di sofferenza umana, come quello che ho vissuto in Sri Lanka», confida il nunzio Mario Zenari. La speranza è di un uguale «tsunami di solidareità». Sospiri dalle nuove catacombe.
Luca Geronico
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