Un sogno apparentemente irrealizzabile: giocare a calcio con le stampelle e creare una nazionale di calciatori amputati. Perché si può sempre e comunque giocare e divertirsi. E Francesco Messori, grazie al suo coraggio e alla sua tenacia, al supporto dei genitori e allo straordinario impegno del Centro sportivo italiano, il suo sogno è riuscito a realizzarlo. Ma è deciso a non fermarsi qui.
“Ma perché proprio il calcio?”. “Perché è il mio sport preferito e sapevo che ce l’avrei fatta”. Comincia con una domanda a bruciapelo e una risposta senza esitazioni l’incontro con Francesco Messori, a margine di un convegno al quale ha portato la sua testimonianza.
Gli brillano gli occhi mentre si racconta, e il suo sorriso è contagioso. Francesco, diciotto anni, abita a Correggio, in provincia di Reggio Emilia, ed ha appena conseguito il diploma in ragioneria. Ora la scelta universitaria oscilla tra lingue e scienze motorie. È capitano di una squadra di calcio e nel 2011 ha incontrato a Barcellona il suo idolo, Leo Messi, dal quale si è fatto fare l’autografo sull’avambraccio.
“Per me – confida – Messi rappresenta il bello del calcio. Quella notte sono stato immobile con il braccio fuori del letto perché la scritta non si cancellasse e il giorno dopo l’ho trasformata in un tatuaggio”.
Un ragazzo come tanti, con la differenza che sulla nuca sfoggia un altro tatuaggio:
“It’s only one leg less”
(è solo una gamba in meno) e si muove con le stampelle. Francesco è nato senza la gamba destra (ed anche senza il rene destro, con un distacco dell’esofago dallo stomaco per il quale è stato operato appena nato, e con un’emivertebra che gli provocherà una grave scoliosi per la quale dovrà sottoporsi ad un altro intervento chirurgico) ma ha giocato a calcio da sempre. E la squadra di cui è capitano l’ha fondata lui stesso ed è la Nazionale italiana calcio amputati del Centro sportivo italiano (Csi).
“Sono nato privo della gamba destra – racconta senza battere ciglio – e per questo la protesi l’ho sempre odiata. Non avendo perso l’arto durante la mia vita non ho mai sentito il bisogno di averlo. A undici anni ho deciso di abbandonare la protesi e di vivere e di giocare a calcio con le stampelle”. Un tempo però le stampelle erano considerate un oggetto pericoloso in campo: “Per questo potevo solo allenarmi e non disputare partite ufficiali”.
A sbloccare la situazione è nel 2011 l’incontro ad Assisi con Massimo Achini, allora presidente del Csi:
“Mi ha tesserato e mi ha permesso di giocare in campionato. Da quel momento è nato il progetto di giocare a calcio con persone amputate come me. Ho iniziato a cercare su Internet se in Italia esistesse qualcosa, ma non c’era nulla. All’estero sì. In Turchia, ad esempio, da anni si svolge un campionato di professionisti a 20 squadre, pure in Polonia e Inghilterra ed anche in altri Paesi che hanno conosciuto la guerra e nei quali, purtroppo, a causa delle mine antiuomo diversi ragazzi perdono un arto”.
Di qui, a nemmeno 14 anni, l’idea di creare un gruppo su Facebook, “Calcio amputati Italia”.
“Ragazzi che giocavano a calcio prima, amputati per un incidente, hanno iniziato a contattarmi – prosegue – e io li aggiungevo”. Raggiunto il numero necessario per creare una squadra, l’8 dicembre 2012 il Csi ufficializza la nazionale il cui debutto internazionale avviene il 27 aprile 2013 ad Annecy, contro la Francia; quello nazionale il 5 ottobre dello stesso anno a Cremona. Nel 2014 la partecipazione ai mondiali in Messico piazzandosi al nono posto su 24 squadre. Il 7 giugno dello stesso anno, in occasione del 70° del Csi, l’incontro con Papa Francesco. La nazionale azzurra – oggi 20 giocatori di 10 regioni d’Italia – è inserita nella World Amputee Football Federation e nella European Amputee Football Federation.
Un sogno realizzato anche grazie alla mamma Francesca Mazzei, un passato giovanile di calciatrice nella Correggese femminile, e al papà Stefano, sempre presente anche se dietro le quinte. Francesca ha appena pubblicato il libro autobiografico “La tifosa di Messi” (Acar edizioni) i cui diritti d’autore saranno devoluti alla nazionale calcio amputati. Da sempre prima supporter del figlio – “è lui il mio Messi” – ci racconta la difficile gravidanza, il “verdetto” – e molte volte l’insensibilità – dei medici dopo l’ecografia –, la sua preoccupazione ma anche il suo coraggio:
“Un figlio è un figlio. Comunque sia. Sano o malato. Intero o, come nel mio caso, con qualche pezzo in meno”.
E la fede: “Quando ho saputo, ho sentito come se il Signore in qualche maniera mi avesse scelta. ‘Dio non toglie mai senza dare molto di più’. Questa frase di sant’Agostino è stata il leit motiv della nostra vita”. “Appena nato Francesco, ricorda, il 22 novembre 1998, “ho visto i suoi bellissimi occhioni azzurri e gli ho sussurrato:
‘Io e te faremo grandi cose’”.
Dopo l’intervento per correggere il distacco dell’esofago, Francesco inizia a crescere come tutti i bambini, ha la sua prima protesi, va a scuola, partecipa alle gite con i compagni “da solo, io non l’ho mai accompagnato”, puntualizza la mamma. A nove anni appare la passione per il calcio, all’inizio con la protesi e nel ruolo di portiere. Ma dura poco: il bambino la abbandona e sceglie le stampelle, nella vita e nello sport. Nel frattempo viene operato alla colonna vertebrale.
“Quest’anno – riprende Francesco – dal 1° al 10 ottobre parteciperemo ai nostri primi europei”. La squadra infatti non è riconosciuta dalla Federcalcio ma dalla Uefa sì.
Tra i progetti futuri “l’integrazione del nostro sport – attualmente disciplina non riconosciuta dal Comitato parilimpico – nel mondo parilimpico, spero per il 2024″.
Due tempi di 30 minuti ciascuno per i due “seven” in campo (si gioca in sette) e lo spettacolo non è meno entusiasmante di una partita tra “normodotati”. La mamma lo guarda e conclude: “La storia di Francesco mi ha permesso di vedere tutti i colori dell’arcobaleno, quelli che normalmente non si vedono”.
Fonte agensir.it/Giovanna Pasqualin Traversa