Un Grande striscione, l’entusiasmo di chi sembra aver assaporato la libertà dopo anni di prigione, bandiere, stemmi e cappelli. Ci sono anche loro, a Betlemme. I cristiani di Gaza, arrivati solo in trentacinque su seicento permessi richiesti.
Il settore destinato a loro nella piazza è in festa. Non si fermano un attimo di cantare, fin dalle prime ore del mattino. “È la prima volta che metto piede fuori dalla ‘Striscia’, quasi non ci credevo più” ci racconta Jamal, classe 1948. ha vissuto a Gaza per tutta la sua vita, e ora è qui con gli altri diecimila che partecipano alla Messa celebrata da papa Francesco. Sognava il permesso anche cinque anni fa, con la visita di Benedetto XVI, ma non è mai arrivato. “Sono a Betlemme da due giorni, ho visitato per la prima volta la grotta dove è nato Gesù”. Si ferma, per la commozione.
I suoi compagni di avventura intanto sventolano la bandiera palestinese assieme a quella del Vaticano, urlano quando vedono passare sopra le loro teste l’aereo che porta il Santo Padre da Abu Mazen. Tra poco potranno vederlo anche loro. “È bellissimo essere qui in questo giorno, amo il Baba”. Baba è come gli arabi chiamano il vescovo di Roma.
Youssef ha solo12 anni, ma in inglese riesce a farsi capire. “Noi viviamo in una situazione difficile, ma essere qui oggi ci da speranza”. Il piccolo gruppetto della Striscia si fa sentire, a sinistra del palco. Sono tutti molto giovani o anziani. Nessuna possibilità per gli over 18 di passare l’enclave israeliano. “Troppo forti, paura di Israele”. Sono le uniche parole che riesce a dire in Italiano il signor George. L’ha imparato lavorando in parrocchia, da giovane. “Io cattolico, viva il Papa!”.
Sono fieri della loro appartenenza religiosa, orgogliosi di essere palestinesi. “È il Papa della pace, può essere davvero l’inizio di un processo per una riconciliazione dei due popoli”. Rada è ottimista, anche lei ha sognato di venire qui. “Mi spiace che alcuni miei familiari non siano riusciti a venire, ma le condizioni erano queste, io sono già stata fortunata”.
Per questo tanti sono rimasti a casa, anche alcuni genitori che per non abbandonare i figli si sono letteralmente divisi. “Tutto qui è una divisione, il Papa deve unire gli animi, o siamo perduti”. Chi con una certa forza irrompe nel dialogo che si è instaurato con gli amici palestinesi è Raghad, una donna sulla sessantina che in arabo prova a sfogarsi con noi. “I cristiani soffrono molto per questa situazione” ci riferisce, “e noi non possiamo vedere mai i nostri luoghi santi”. La crescente islamizzazione di Hamas, il fallimento delle trattative di pace e la difficile condizione di chi vive in quel lembo di terra così martoriato a volte scoraggia. Oggi però sono a Betlemme. A gioire per la visita del loro Baba. “Aspettiamo il suo abbraccio, aspettiamo le sue parole di pace e di speranza”.
Anche per dimenticare – qualche ora – la prigione in cui sono rinchiusi. “Viva Papa, viva Palestina”, è il loro modo di ringraziarci, in Italiano, perché ci ricordiamo di loro. Di Andra Avveduto fonte vaticaninsider.lastampa.it