dalle famiglie di contadini di una delle zone più povere del Messico – il 24% della popolazione, 800mila persone, è in miseria – con un fascio di banconote. E offrono 2mila pesos per ogni ragazzino disposto a “rallar” per quattro mesi, dodici ore al giorno, sette giorni su sette. Briciole: poco più di cento euro in tutto. L’alternativa, però, è fare la fame o prendersi una pallottola dai trafficanti poco propensi ad accettare un rifiuto. Città del Messico e le sue istituzioni sono lontane, non solo geograficamente. In Guerrero, sono i narcos l’autorità. «Noi fratelli lavoriamo tutti: siamo in quattro, racimoliamo 8mila pesos e, così, riusciamo a mantenere la famiglia», racconta Fidel, il più grande del gruppo. Le mani piccole dei bambini sono fondamentali per una buona riuscita del “raccolto” perché non rischiano di schiacciare il fiore mentre si estrae il siero. Non esiste una cifra attendibile dei “baby-gomeros”, i bimbi dell’oppio, li chiamano. L’unico dato certo è che buona parte dei tre milioni di minori messicani impiegati in agricoltura, coltiva papaveri. E il numero sta crescendo, con la complicità spesso di politici locali, al soldo del crimine, come dimostrato dal caso dei 43 studenti scomparsi a Iguala. L’incremento dei piccoli “schiavi” del Guerrero è tra gli effetti collaterali più drammatici del boom della “mexican mud”, l’eroina messicana. L’alternativa con cui i cartelli della droga hanno risposto alla legalizzazione della marijuana “ricreativa” in alcuni Stati Usa, principale mercato delle droghe latinoamericane, insieme all’Europa. L’erba legale vince la concorrenza di quella illegale: la sua purezza è certificata. L’aumento dell’offerta, inoltre, ha fatto crollare i prezzi. Inutile competere. I narcos, dunque, hanno deciso “diversificare il prodotto”, come previsto da molti esperti interpellati mesi fa da
I papaveri sono, dunque, diventati il 30esimo prodotto agricolo maggiormente coltivato, battendo i classici meloni, fragole, carote e lenticchie. Al contempo, sono aumentati i sequestri di eroina pura (più 42%, 259 chili) e di semi di papavero (3,6 tonnellate, il triplo del 2013). A dirigere il “nuovo corso” è il potente cartello di Sinaloa, il gruppo più attento alle fluttuazioni del mercato criminale. La formazione, guidata dal “ri-evaso” Joaquín “El Chapo” Guzmán, ha le proprie roccheforti proprio dove cresce l’oppio: il Guerrero e il Triangolo Dorato: Sinaloa, Durango e Chihuhua. Gli uomini di El Chapo non si occupano direttamente della produzione, bensì la appaltano a gruppi più piccoli. Il che spiega il moltiplicarsi delle formazioni e della violenza nella zona. Sono le bande de Los Rojos, Guerreros Unidos e Los Pelones a tenere i contatti con i contadini. Ovvero a reclutare la manodopera e ad acquistare la “goma” ottenuta. Poi la passano agli intermediari di Sinaloa che la esportano oltre-frontiera. Ormai – secondo l’Agenzia anti-droga Usa (Dea) –, il 45% dell’eroina consumata negli States proviene dal Messico. Quest’ultimo ha soppiantato Colombia e Afghanistan come principale fornitore. Gli economisti sostengono che, spesso, l’offerta genera la domanda. La regola calza a pennello al mercato della droga. Come dimostra anche questo caso. Inondati da eroina di buona qualità e a basso costo – una bustina si aggira intorno agli otto dollari –, gli statunitensi ne hanno moltiplicato il consumo. Sono almeno 700mila i dipendenti dalla sostanza, il doppio rispetto a otto anni fa. Per i cartelli messicani, un giro d’affari da 13,5 miliardi di dollari. Il picco si concentra nella regione dei Grandi Laghi e nel Nord-Est, soprattutto in Pennsylvania. A Washington County, 200mila abitanti, nella Pennsylvania sud-occidentale, si contano otto overdose ogni 70 minuti. L’anno scorso, l’eroina ha stroncato 8.200 cittadini Usa, il quadruplo rispetto al 2002. Ángela, Mixti, Fidel e Andrés non sanno nulla della strage. Né hanno idea di dove vada quella sostanza collosa che estraggono dai papaveri. «Anche mamma e papà lavorano nel campo – dice Ángela –. Non c’è nient’altro. E se loro (i narcos, ndr) ordinano, dobbiamo obbedire».