Stipendi e saperi non si incontrano

Non sarà solo un problema di soldi, certo. Sarà che è una missione, come si ripete da secoli, ma è anche un fatto di dignità. I luoghi comuni poi sono controproducenti: alcuni docenti sospettano che l’espressione “Il mestiere di insegnante è il più bello del mondo” sia il contentino della proletarizzazione e della marginalizzazione della categoria. Altrove, però, la situazione cambia radicalmente. Ad esempio nel piccolo Lussemburgo, dove – calcolando le cifre al lordo, senza tener conto delle differenti modalità di prelievo – gli insegnanti, secondo dati Ocse 2013, partono da 67mila euro per arrivare, nei licei, a circa 135mila. Non esattamente la situazione dei docenti nostrani, che, sfatiamo altre leggende, stanno più ore in cattedra dei loro super-remunerati colleghi del Lussemburgo: 18 ore settimanali contro 17,5. l’Italia, tra l’altro, è uno dei paesi europei in cui i salari sono cresciuti di meno. Negli istituti di istruzione superiore la base di ingresso è di quasi 25mila euro per arrivare ai 39mila di fine carriera. Un’altra agenzia internazionale solitamente ben informata come Eurydice, in una ricerca risalente all’anno 2011-12, accreditava i docenti italiani di una media annua stipendiale di 30.431 euro.

Cifre, aride cifre, che però ci relegano ai posti di rincalzo in Europa: il tetto in Francia (dove tuttavia si lamentano per la perdita del potere d’acquisto), è di 47mila euro, ma lì ci sono benefit per alleviare distanze e affitti, mentre in Germania è difficile fare una valutazione, viste le differenziazioni tra lander (nel paese di Goethe lo stipendio è adeguato al tasso di inflazione), ma si può parlare di un tetto vicino ai 67mila euro. Nel Regno Unito, dove sono previsti interventi del privato, si arriva a 42mila euro dopo 10 anni. Da noi, il massimo salariale si raggiunge dopo 34 anni, una bella porzione di vita.

Ma la situazione critica dell’insegnamento italiano è causata anche da altri fattori. Uno di essi è probabilmente un abusato ricorso alla quantizzazione temporale, che ha fatto parlare (e poi ritrattare) dalle parti di viale Trastevere delle famose 36 ore. La domanda è: si può fare un discorso esclusivamente matematico in un mondo di sensibilità in germoglio, da proteggere e da stimolare – il che richiede una partecipazione, un ruolo naturale, anche a non volerlo esercitare, di guida e di filtro nei riguardi del mondo? Anche perché questo mondo è popolato di cattivi maestri mediatici che offrono modelli di vita alternativi all’impegno e allo studio. E che talvolta li mettono in ridicolo.

Se il ministero privilegia la quantità, allora deve spiegare ai docenti perché le montagne di compiti in classe e di verifiche da correggere non debbano essere valutate quantitativamente, senza parlare della preparazione delle lezioni e dell’aggiornamento. A proposito di questo, molti si interrogano sul fatto che si parli solo di tempo, e non di saperi. Può capitare che un docente sia un riconosciuto esperto della sua materia, con tanto di saggi e libri, e dedichi quindi molto tempo al suo aggiornamento. Questo, dicono gli interessati, significa sapere, e i saperi sono alla base del mestiere e dovrebbero essere calcolati, visto che si deve parlare di calcoli. Da qui al problema della rispondenza tra materia di insegnamento e laurea il passo è breve. La laurea in psicologia permette di insegnare filosofia, un grecista può insegnare letteratura italiana, e un italianista può insegnare greco. E sono solo pochi esempi. Ci si aspetterebbe una razionalizzazione, poiché un italianista può dare il meglio di sé affrontando argomenti delle sue ricerche, catturando l’attenzione degli studenti e permettendo un uso – questo sì più razionale – del tempo in classe. Come in classe talvolta non riescono a stare i collaboratori del Dirigente scolastico che, nelle scuole con meno di 40 classi, non solo non sono esonerati dal servizio, ma devono riuscire anche a tirare avanti la baracca. Sfiorando talvolta lo sdoppiamento.

Per non parlare di una contraddizione nel campo più importante oggi, quello dell’economia turistica. In un paese come il nostro, la formazione di professioni turistiche, archeologiche, storiche, museali e comunque legate al territorio, sarebbe un forte incentivo alla ripresa. Risultato: la storia dell’arte viene cancellata da quasi tutti i professionali, mantenuta a stento nel triennio superiore dei Licei (mentre si parlava di una sua estensione al biennio di base), la filosofia messa in discussione, come anche la lingua greca. Conservare e valorizzare il proprio patrimonio è il vero progresso economico, che tra l’altro è perfettamente compatibile con l’era del web, come dimostrano la sistemazione in internet di intere biblioteche e di codici antichi, la razionalizzazione e visualizzazione di musei, mostre e siti.

Di Marco Testi per Agensir

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