Alla 69.ma Assemblea Generale della Cei il Papa parla della relazione fondante che ogni sacerdote deve avere con la sua comunità e chiede ai vescovi di avvicinarsi ai propri parroci, e di farlo come su terra sacra, da scalzi. Non istruisce i vescovi perché istruiscano i sacerdoti ma dice ai vescovi di andare dai loro preti ad imparare come si vive insieme alle proprie pecore. Di imparare “ascoltando e guardando” perché la vita si impara vivendola e si impara da chi la vive. La lezione migliore che si può avere è da un testimone, da uno che vive una vita saporita. In questo modo il Papa arriva a parlare del roveto ardente per parlare della vocazione sacerdotale.
Un roveto che brucia ambizioni e prestigio personale non per consumare la vita ma per renderla spendibile, vera vita sacerdotale, farne un dono a chi ci è affidato perché “ne marchia a fuoco l’esistenza”.
“Come Mosè, il sacerdote è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un ‘devoto’, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco”.”
Il Papa conosce le ferite del nostro tempo e pensa che per esse servano sacerdoti “bruciati”. “Ci sono tante persone che sono in ‘affanno per la mancanza di riferimenti’, ci sono ‘relazioni ferite’, ‘non c’è più posto per il fratello’. Proprio su questo sfondo, la vita del presbitero ‘diventa eloquente’, perché diversa”.
Forse perché sabato nell’udienza giubilare ha parlato di quella pietà sbagliata che a volte fa dell’affetto verso l’animale l’unica forma di compassione, mi viene in mente il parroco di un mio conoscente che si fa il giro della parrocchia – dell’isolato – con la signora anziana e il suo cagnolino, ascoltando pazientemente il resoconto delle malattie di entrambi.
E questo pensiero scaccia via tutte le sciocchezze sentite in queste ventiquattro ore che cianciano sul Papa che non ama cani e gatti. Il Papa sta dicendo ai vescovi di imparare da quel parroco: ogni prete di oggi che sia minimamente prete conosce l’importanza fondamentale dei cani e dei gatti per chi vive in città. Sa quante vite gli animali salvino non perché recuperano gli uomini dalle tormente della neve come i sanbernardo di una volta, ma ti tengono a galla nelle bufere della vita.
Il mio amico parroco che ascolta le preoccupazioni per il gatto, non ha forse trovato il modo di stare “scalzo” e “non scandalizzarsi per le fragilità che scuotono l’animo umano” e cogliere amore lì dove c’è solo la fragilità e la tenerezza di una signora anziana e del suo cagnolino che stanno insieme a dividere acciacchi e vecchiaia?
Il sacerdote, come Helder Camara, “cammina con il cuore e il passo dei poveri”, “reso ricco dalla loro frequentazione” e quindi non cerca “titoli onorifici” , “non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno”. Non lega a sé le persone che gli sono affidate “
A che serve l’olio se non a chi è ferito, a chi è piccolo, a chi sa amare solo un cane o solo attraverso un cane? Un giro intorno alla parrocchia al passo del povero e tirando un guinzaglio, è un modo di vivere “senza agenda”, “ senza onori”, con la vita scalza su terra santa. Perché chi si appartiene alla fine si assomiglia, come succede con i vecchi coniugi dopo una vita insieme, o ai padroni dei cani che finiscono per assomigliarsi ben oltre il colore o la lunghezza del pelo.
“Questa appartenenza è il sale della vita del presbitero; fa sì che il suo tratto distintivo sia la comunione, vissuta con i laici in rapporti che sanno valorizzare la partecipazione di ciascuno. In questo tempo povero di amicizia sociale, il nostro primo compito è quello di costruire comunità; l’attitudine alla relazione è, quindi, un criterio decisivo di discernimento vocazionale”.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da FaroDiRoma