Italiae et Ecclesia

Suor Elena Tuccitto, campionessa di karate passa dal kimono al saio per servire Dio

Suor Elena Tuccitto, dal kimono del karate al saio

Da campionessa di karate a Rovio, nella Fraternità francescana di Betania…

LA STORIA – Elena, cresciuta ai piedi del Monte La Verna (dove ricevette le stimmate San Francesco), era insegnante di educazione fisica, laureata in scienze motorie con specializzazione in terapia fisica preventiva adattata, già campionessa mondiale di karate, «ho vissuto la fede come scelta d’amore» ci dice con una dolcezza e naturalezza smisurate. Poi ci parla della sua famiglia «dove c’è un angelo particolare che è Giovanna, mia sorella con sindrome di Down, più giovane di tre anni, creata per amare, è lei che in casa ha fatto sempre da collante.

Per molti avere un familiare diversamente abile potrebbe sembrare una disgrazia invece vorrei testimoniare che è una grazia enorme starci accanto perché essi insegnano l’essenzialità della vita e ciò che di più bello si possa desiderare e cioè di vivere in una dimensione di amore, di gioia, di pace caratterizzata dal dono gratuito di sé nonostante tutto e tutti. Essendo molto devota alla Madonna mi ha insegnato ad apprezzare la preghiera attraverso il Rosario e la Santa Messa».

Dimostra suor Elena un carattere battagliero. Come è arrivata al karate?

Come famiglia abbiamo sempre praticato molto sport. I campi di atletica hanno caratterizzato i nostri pomeriggi. È nata da qui la passione per l’attività sportiva che è molto formativa. In un primo tempo l’ho cercata nella danza poi mi sono innamorata del maestro di karate. Avevo sedici anni… ho visto quest’uomo talmente bello e affascinante con una certa autorità e ho iniziato a praticarlo. Una disciplina che poi si è rivelata bellissima. Il karate è molto educativo, ha tanti principi che sono molto affini a un cammino spirituale, solo che mentre nella pratica del karate l’obiettivo era la medaglia, la gloria umana, trasportato nella vita spirituale l’obiettivo diventa la vita eterna.

Una disciplina che l’ha aiutata e l’aiuta anche nella sua vita religiosa?

Certo! Nella vita religiosa, nella vita cristiana, come indicavano i mistici, si parla di combattimento spirituale. Esistono lotte interiori che ogni uomo vive nel momento di ogni scelta fra bene e male, fra dono all’altro o egoismo. Per contrastare questo individualismo imperante nella nostra società, che è frutto di tante ideologie, è necessario uno sforzo per dire no e dire invece ‘voglio amare, voglio donare’. E quando sperimenti ciò ti senti realizzata.

Andava cercando una ‘chiamata’ o è giunta inattesa?

Non ho il ricordo di un momento particolare di chiamata perché fin da piccola ho sempre percepito forte la presenza di Dio nella mia vita. Mi ricordo che alle Elementari, nel mio diario, scrissi una lettera al Padre dicendo che mi volevo sposare con Gesù e che la mia anima sarebbe stata solo sua. Fino alla prima adolescenza volevo essere una suora, la ‘sposa di Gesù’. I miei modelli erano la Madonna e San Francesco.

La vita comunitaria è spesso impegnativa e richiede pazienza e condivisione: una cosa è la famiglia che ti scegli, un’altra una comunità che ti è ‘imposta’. Lo sport è entrato anche in questa veste di alleato?

Sicuramente, perché ogni vita comunitaria, dove non ti sei scelto delle persone, ma è il Signore che le ha scelte per te, è una sfida continua nell’entrare in comunione con l’altro. Noi partiamo dal presupposto che la spiritualità cristiana ci insegna a comprendere che il mondo, la natura, il tuo corpo, l’altro, sono mezzi con i quali tu puoi realizzare la tua identità di essere umano e puoi riscoprire la coscienza di te come persona che ha conseguente dignità e diritti, una libertà che Dio ti ha dato. Il dono dei ‘fratelli’, di un ambiente, perché ti rende sereno? Perché c’è una chiamata e in questo lo sport mi ha dato sicuramente un aiuto. Negli sport da combattimento quando entri nel quadrato e ti trovi con l’altro, sai che devi rispettarlo. Il karate ti insegna ‘vinca il migliore’ e questo adattamento continuo verso l’altro, questa ‘danza’, e il sapere che non puoi fare male all’altro, ma che comunque vuoi vincere quella medaglia, è tutto un gioco che negli anni ti educa a una convivenza pacifica, che poi realizza la persona. La sfida più bella è iniziare a capire che l’altro lo devi ascoltare, prima che con le tue orecchie con il tuo cuore, liberarti dai pregiudizi. Il fatto che esso sia diverso è una ricchezza che nel tempo ti completa e ti arricchisce!

Nello sport è giunta sul gradino più alto; ha avuto popolarità, visibilità sui mass media, denaro. Ha sofferto e ha rimpianti per aver chiuso quella porta?

Fare memoria del passato è fondamentale, in qualsiasi percorso umano. La scelta di ritirarmi è stata una scelta mia. Ho veramente dato tanto, ho vinto diversi titoli italiani prima di ricevere le prime convocazioni in Nazionale, anni in cui avevo abbandonato l’idea di farmi suora anche perché nel frattempo avevo iniziato con quest’uomo una relazione. L’obiettivo si era dunque spostato sulla creazione di una famiglia. Poi quando sono arrivata a vincere l’oro, dopo il bronzo e l’argento, quando ho raggiunto quello che volevo ho assaporato… la delusione del risultato umano. Mi sono ritrovata questa medaglia e mi sono detta ‘la mia vita è tutta qui?’. Avevo il mio lavoro di insegnante di educazione fisica a scuola, avevo una palestra, avevo un bel giro, e credevo che la mia vita fosse realizzata. Però negli occhi di mia sorella avevo trovato un’altra risposta… E allora ti dici ‘io la pace ce l’ho quando vivo in quella dimensione’; con lei facevo pellegrinaggi a Lourdes, a Medjugorje, dove sperimentavo il riempimento di un vuoto che il mondo non riusciva a colmare. E lì che ho conosciuto la mia Fraternità, questa comunità meravigliosa.

Suor Elena Tuccito (baritoday.it)

È stato dunque un… caso?

Non credo al caso. Ho pregato tanto la Madonna. Vivevo in una realtà, sia di lavoro sia di relazione sentimentale, dove solo io avevo questa fede così forte e il fatto che non la potessi condividere con la persona più vicina e con l’ambiente che mi stava intorno mi ha portato a ricercare qualcosa ‘al di fuori’. Ho incontrato un gruppo che faceva un pellegrinaggio in una realtà francescana diversa e io mi sono aggregata. Così ho conosciuto padre Pancrazio (il suo fondatore, ndr), ho conosciuto giovani che donavano la loro vita. Seguirli è stata una scelta molto sofferta. Ho impiegato quattro anni prima di decidermi, di lasciare tutto, perché comunque ero veramente coinvolta sentimentalmente e con il lavoro. C’era un’attività messa in piedi insieme e c’era anche una sorella che non volevo lasciare, perché nei miei pensieri lei sarebbe stata sempre con me. Dio mi ha dato tanta forza nel dirmi ‘lascia tutto, Io ti dono il centuplo, a lei ci penso io, alla tua famiglia ci penso io’, così sono partita e non sono più tornata.

La fede incarnata nel saio però non le ha portato via lo sport che è rimasto nella sua vita consacrata…

Amo uno stile di vita sano, l’attività fisica, un’alimentazione corretta. La salute non deve però essere un idolo, per questo ringrazio Dio per avermi dato un corpo con cui posso lodarlo e glorificarlo. Se Dio ha scelto di stare vicino all’uomo incarnandosi in un corpo significa che questo corpo ha un valore enorme. Per questo non si dice io ‘ho’ un corpo ma io ‘sono’ un corpo. Che poi oggi si voglia far passare la dimensione corporea come vanità, perché esiste un eccesso, essa resta una dimensione che va valorizzata e in cui l’uomo incontra Dio. È un luogo che devi quindi rispettare e lo rispetti anche con il dono della salute. L’attività fisica perché continuo a praticarla? Perché mi fa star bene.

Cammina di buon mattino e sola nei boschi, non ha paura?

Mi sento molto francescana nell’alzarmi la mattina presto, farmi le mie passeggiate rigorosamente da sola. Qui sulle pendici del Monte Generoso abbiamo sentieri bellissimi. Non ho paura perché ho Dio con me. Quando incontro degli animali, se trovo qualche cinghiale gli parlo e gli dico di spostarsi, ma in genere non lo fanno… (sorride). Qualche volta incontro cervi o camosci.

Perché proprio la Fraternità di Betania?

Trovo molta sintonia con la vita che facevo prima. La Fraternità di Betania ha una spiritualità che si basa su tre pilastri: la preghiera, l’accoglienza e la vita fraterna, che è molto simile all’esistenza che trascorrevo in passato. La mia comunità mi garantisce di riservarmi degli spazi di silenzio in cui studiare, meditare, contemplare, come con il karate avevo i miei momenti di introspezione e di dinamiche mentali per migliorare nella consapevolezza del sé e dall’altra di essere a contatto con tante persone diverse da me, in quanto le nostre case sono oasi di spiritualità e vi è sempre tanta gente che desidera trascorrere momenti di preghiera e di vita fraterna nella semplicità familiare di una realtà francescana.

Oggi si parla molto di mancanza di fede…

Il problema è che l’Europa si sta scristianizzando, vuoi per dei modelli sbagliati, per l’esempio che qualche volta diamo anche noi, perché comunque essere cristiani è faticoso, ma resta sempre una scelta entusiasmante. Credo che la sete di spiritualità permanga; a volte viene riversata su altre discipline, religioni, filosofie, che però non arrivano a darti delle risposte come lo fa Gesù Cristo. La Chiesa resta ricca di giovani e di fede, di persone che magari hanno fatto altre esperienze e poi tornano a Lui.

Mi ha parlato di un particolare momento di vita comunitaria e di lode al Signore.

Ogni notte alle 3 ci ritroviamo in cappella con il Santissimo esposto e recitiamo sia il Rosario sia l’Ufficio divino, è il pilastro della nostra Fraternità. Perché le 3 e non mezzanotte o l’una? Padre Pancrazio diceva che è l’ora delle massime tenebre in cui il male si scatena. Ci alziamo quindi con un’intenzione di riparazione: stare vicini a Gesù e pregare per il mondo intero in particolare per la Chiesa, il Santo Padre e i nostri Vescovi. È un sacrificio perché non ti abitui mai a spezzare il sonno ma sperimenti sempre una forza interiore che non ha pari, i suoi raggi d’amore guariscono, consolano, danno forza. Queste mura chissà quanti sorrisi, preghiere e lacrime hanno accolto. (Cristina Ferrari – La Regione.ch)

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