Categorie: Testimonium

Suor Eugenia, 77 anni spesi per gli altri: Ho ascoltato il grido delle donne

Dopo oltre vent’anni che si occupa del fenomeno della tratta di esseri umani e di varie forme di schiavitù e violenza contro le donne, suor Eugenia Bonetti, 77 anni di Bubbiano, nella bassa Milanese, non finisce mai di indignarsi e commuoversi, arrabbiarsi e intenerirsi. Contro trafficanti e sfruttatori, da una parte, e al fianco delle vittime dall’altra.

È qualcosa che impregna ormai il suo essere, questa lotta contro una delle peggiori forme di schiavitù del XXI secolo: quella che continua a ridurre le persone, e in particolare le donne, a merci da vendere, comprare, usare e gettare via. Missionaria della Consolata, suor Eugenia ha speso tutta la sua vita, prima in Africa e poi in Italia, al fianco di donne vittime in vario modo di discriminazioni, violenze e soprusi. Incentrando il suo impegno, a partire dal 1993, sul fenomeno della tratta e dello sfruttamento sessuale. Dal Duemila, è responsabile del settore “Tratta donne e minori” dell’Usmi (Unione superiori maggiori italiane) e nel 2013 è stata tra le fondatrici dell’associazione Slaves no more (Mai più schiave, ndr), con cui ha cercato di dare ancora più concretezza a questo impegno, sia in Italia che nei Paesi di origine delle vittime.

Oggi è in prima linea nel promuovere la seconda Giornata internazionale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone, voluta fortemente da papa Francesco e che verrà celebrata il prossimo 8 febbraio, festa di santa Bakhita.

Suor Eugenia, come e perché ha iniziato a occuparsi di questo fenomeno?

«Rientrata dall’Africa e assegnata alla Caritas di Torino, mi sono trovata improvvisamente di fronte a un’altra dimensione di donna africana che non conoscevo e che mi ha sconvolto e interrogato. Una giovane nigeriana mi si è avvicinata in strada e mi ha supplicata: “Sister, help me! Help me!” (“Sorella, mi aiuti! Mi aiuti!”). Quel grido non mi ha fatto dormire. E mi ha aperto gli occhi sul mondo della strada e della notte. Ovvero sulla realtà di migliaia di donne trafficate e costrette a prostituirsi come vere e proprie schiave. Nigeriane, ma non solo. Ho approfondito la conoscenza del fenomeno che coinvolge donne e ragazze spesso giovanissime di varie provenienze, buttate sulle strade o in locali e appartamenti dai loro aguzzini, che ne traggono enormi guadagni. Mi sono detta che non si poteva restare a guardare, che bisognava fare qualcosa. E un po’ alla volta ho coinvolto anche altre religiose. Oggi siamo una grande rete. Ed è questa la nostra forza».



Dopo più di vent’anni che si occupa di traffico di esseri umani, vede dei cambiamenti?

«Purtroppo il fenomeno della tratta, dopo tanti anni di contrasto, non sembra davvero diminuire, ma è in continua trasformazione: cambiano le provenienze, l’età delle donne sfruttate (sempre più giovani), le rotte e le modalità di sfruttamento. L’unica realtà che non è cambiata è la costante richiesta di donne sul mercato del sesso a pagamento, insieme agli ingenti guadagni di chi alimenta questo traffico. Serve molta più consapevolezza per combattere seriamente questo gravissimo fenomeno. Purtroppo molti continuano a pensare che queste donne scelgano di prostituirsi, mentre nella quasi totalità dei casi si tratta di giovani immigrate, costrette a farlo».

Quanto alle istituzioni e alle forze dell’ordine, ritiene che ci sia un maggiore impegno?

«Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila si è lavorato molto bene e con serietà. Diverse realtà di governo e della società civile hanno operato insieme, pur con ruoli diversi, offrendo progetti di integrazione sociale a molte vittime. Ora invece sembra ci sia una sostanziale mancanza di interesse, sia nell’affrontare la criminalità organizzata sia nell’offrire protezione alle donne».

A proposito di nigeriane, si è assistito a un boom di sbarchi di giovani donne provenienti da quel Paese, che finiscono quasi inevitabilmente sulle strade. Perché?

«Le principali cause di questi nuovi sbarchi – circa 4.300 donne nel 2015 – sono sostanzialmente tre: povertà, ignoranza e corruzione. I trafficanti, da un lato, offrono un’opportunità ai giovani che vogliono andarsene a ogni costo, e dall’altro rispondono alla richiesta di sesso a pagamento e di manodopera a basso costo nei nostri Paesi. In tutto questo si inserisce l’ignoranza e, ancor più, la corruzione a tutti i livelli».

Che cosa fanno le religiose?

«Negli anni Novanta, sono state tra le prime a cercare di capire il fenomeno e a provare a dare risposte concrete, aprendo le proprie comunità all’accoglienza di donne in fuga dai trafficanti. Si è quindi cercato di creare reti di collaborazione con tutte le altre forze sociali, politiche e religiose per dare risposte più adeguate. Attualmente, sono circa 250 le religiose di una settantina di congregazioni che operano in più di 80 case di accoglienza. In questi anni, sono state accolte e reintegrate oltre 6.000 donne, in maggioranza nigeriane. Ma oggi è sempre più difficile farsi carico di questa sfida».

Cosa la spinge ad andare avanti?

«Di recente ho conosciuto una giovane nigeriana, una ragazza istruita finita con l’inganno nella trappola dei trafficanti. Ma grazie al suo coraggio e al suo senso di dignità, è riuscita a fuggire, a denunciare e a chiedere aiuto. Si è messa d’impegno a studiare l’italiano e a frequentare un corso per mediatori culturali per aiutare altre ragazze che, come lei, sono finite in questo girone infernale. Il suo impegno e la sua determinazione sono un esempio e un incoraggiamento anche per me».

Attraverso l’associazione Slaves no more, sono stati promossi anche progetti di rimpatri assistiti di donne nigeriane trafficate…

«In collaborazione con la Caritas italiana e con i fondi della Conferenza episcopale italiana, abbiamo accompagnato in Nigeria 12 donne con 8 bambini e le abbiamo sostenute nella ricerca di una casa e di un lavoro. Noi e loro ci prendiamo tutto il tempo necessario, con progetti personalizzati, perché possano tornare a camminare con le loro gambe, in libertà e dignità».



Redazione Papaboys (Fonte www.credere.it/Anna Pozzi)

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