Sono passate da poco le 6 del mattino e nel villaggio mozambicano di Nipepe è l’ora della Messa. Un’alba tranquilla come tante altre, quella di quel 10 gennaio 1989, fino a quando il rumore della paura piomba tra le case. Spari, raffiche di armi, urla, veicoli che arrivano e annunciano una strage come tante altre in quel periodo. I miliziani della “Renamo” che da 20 anni combattono contro il partito filomarxista del “Frelimo” vengono a portare la loro legge. Circa 230 persone, metà bambini, scappano terrorizzate e si asserragliano in chiesa, subito circondata. Comincia l’assedio. Dentro non c’è niente per tutta quella folla. Qualche biscotto della Caritas avanzato da una festa di Battesimo e un po’ d’acqua del fonte battesimale, ricavato da un tronco pieno di fessure.
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La richiesta impossibile
Verso le 17, il parroco, padre Giuseppe Frizzi, chiama i catechisti e propone di elevare una preghiera di intercessione a suor Irene Stefani, missionaria del suo Istituto, la Consolata. La richiesta è di quelle “impossibili” data la circostanza: che tutti si salvino. La preghiera viene ripetuta da tutti per due giorni, fino a quando 140 persone vengono fatte uscire, caricate come bestie da soma e costrette a marciare per decine di chilometri nella foresta. Gli altri 80 restano in chiesa un altro giorno, poi i miliziani se ne vanno.
Il miracolo nascosto
Sulle prime quasi nessuno fa caso al primo prodigio tra quelli che porteranno suor Irene agli altari: l’acqua del fonte battesimale ha continuato a dissetare tutti senza esaurirsi. E poi l’altro prodigio. Dopo una settimana tutti i 140 ritornano al villaggio. E raccontano storie incredibili: esecuzioni sommarie scampate per un soffio, campi minati attraversati senza saltare in aria. È il “miracolo” collettivo ottenuto da suor Irene, che 60 anni prima aveva lasciato in Kenya il ricordo di un coraggio e una carità smisurati.
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A rammentarlo è suor Jacinta Theuri, Missionaria della Consolata oggi a Roma ma originaria del Kenya, proprio della diocesi di Nyeri dove suor Irene visse a lungo:
“Irene è stata una madre, una madre in tutti i sensi: madre spirituale e madre che nutriva anche il corpo, i bisogni del corpo. Per questo la gente l’ha chiamata ‘la madre di misericordia’, ‘la madre tutta tenera’. E ancora, di generazione in generazione, si tramanda la storia di questa grande donna e anche di altri missionari della Consolata che lavoravano in quella zona. Suor Irene non ha mai discriminato o allontanato le persone e per questo ha conquistato tanto la fiducia della gente”.
Dolcezza e molta pazienza
Suor Irene era nata in provincia di Brescia nel 1891, battezzata col nome di Mercede, quinta di dodici figli. A 20 anni entra tra le Missionarie della Consolata, a 23 parte per il Kenya. Per i primi anni si dedica all’assistenza negli ospedali militari – strutture fatiscenti senza nulla – dove pulisce e fascia le ferite dei portatori africani, arruolati per trasportare materiale bellico della Prima Guerra Mondiale. La guida un motto: “Dolcezza, affabilità grande, molta, molta pazienza”.
“Lei non perdeva la speranza di aiutare la gente gravemente colpita e faceva di tutto per dare speranza, per curare se c’era bisogno, per dare da mangiare, per insistere nello stare loro vicino. Andava anche alla ricerca di coloro che erano già stati buttati via come morti e alle volte riusciva a recuperare persone che non erano morte e le aiutava a ricominciare a vivere”.
Mille vite per Gesù
Nel 1920, suor Irene raggiunge la missione di Ghekondi, dove si dedica all’insegnamento scolastico. Gira per le capanne, col sorriso e un rosario in mano, alla ricerca di ragazzini da invitare a scuola e così conosce e aiuta come può anche le loro mamme. Insegna alle giovani consorelle, giunte da lei per il tirocinio missionario, e le circonda di affetto e attenzioni. Poi, nel settembre 1930, mentre si trova a Nyeri per gli esercizi spirituali –
“Quest’uomo, da cui ha contratto la malattia, faceva di tutto per togliere suor Irene dal suo lavoro. Invece, suor Irene non si è fermata. È andata avanti a cercarlo, anche nei momenti in cui lui aveva più bisogno. Lo ha curato e curandolo ha preso questa malattia. Per questo tanta gente dice che lei non è morta per la malattia, ma è morta per amore“.
“Morta per amore”
Domenica 26 ottobre 1930 è la festa di Cristo Re. Suor Irene alla Messa guida le preghiere, ma i brividi le gelano le ossa. Si mette a letto. Muore cinque giorni dopo, a 39 anni, felice di andare “in Paradiso”, come dice a chi le è accanto in lacrime. Colei che chiamano “Nyaatha”, cioè “madre misericordiosa”, realizza il sogno annotato un giorno su una pagina –
“Desideriamo proprio vivere questa tenerezza materna di Dio e continuare questo fuoco della consolazione nelle generazioni che vengono; non lasciare spegnere il fuoco, che è stato acceso e poi guardare anche al futuro con grande speranza ed essere testimoni della gioia di appartenere a Cristo”.
Con la sua presenza di bontà, misericordia e tenerezza Irene continua a vegliare su quanti la invocano con fede e amore; sa intercedere presso il Signore della Vita e prendersi cura di quanti sono nella sofferenza o nel pericolo. Offriamo, attraverso le immagini, sinteticamente, il miracolo a lei attribuito e che l’ha portato alla considerazione della Santa Sede come una Santa da ammirare, imitare e pregare.
[box]per approfondimenti: http://suorirenestefani.org delle Suore Missionarie della Consolata[/box]
A cura di Alessandro Ginotta (dalla Radio Vaticana e la testimonianza di suor Jacinta Theuri, MC)
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