Sono oltre duemila le ragazze ridotte a lordura dalla sanguinaria milizia del Lord’s Resistence Army e salvate dalla donna che ha sconfitto i signori della guerra. Con ago e filo. Compatte, fluorescenti, uniche. Accuratamente cucite, umili e splendide. Le borse delle ragazze di sister Rosemary sono l’idea che non ti aspetti, il risultato che supera le aspettative. Non le ha inventate lei, ha preso a prestito l’idea dall’iniziativa di un gruppo di attiviste filippine per i diritti della donna. Convinta che le donne che potevano tradurla in artigianato pregiato ce le aveva lei.
Scrivono Reggie Whitten e Nancy Henderson nel libro Rosemary Nyirumbe. Cucire la speranza: «Sapeva che molte persone, quando vedevano una linguetta di alluminio per terra, la consideravano un rifiuto. Le sue ragazze assomigliavano molto a quella linguetta – ignorate, scartate, messe da parte, trattate con disprezzo. Molte di loro portavano i segni della prigionia e venivano considerate alla stregua di spazzatura dagli stessi uomini che avevano scelto di amare, e dalle loro stesse famiglie alle quali si erano ricongiunte dopo essere riuscite a scappare. Ma lì, in quel luogo, ripescate dal cestino della spazzatura, tirate a lucido e tessute insieme da un destino comune, erano diventate dei preziosi tesori da ammirare e amare».
Per vent’anni, dal 1986 al 2006, l’Uganda settentrionale è stata devastata da ribellioni armate, banditismo, repressione indiscriminata. Nel primo quarto di secolo d’indipendenza dell’ex colonia britannica il potere politico e militare era rimasto sempre concentrato nelle mani di esponenti delle etnie del nord del paese, poi nel 1986 con l’ascesa al potere del guerrigliero Yoweri Museveni (il primo caso di lotta armata contro un governo africano dopo la decolonizzazione conclusa con la vittoria dei ribelli, non è un caso che trent’anni dopo Museveni sia ancora al governo) il potere è sceso a sud. Il nord ha reagito con un vero e proprio suicidio politico, militare e antropologico: nel generale vuoto di leadership la fiaccola dell’opposizione è stata presa in mano da movimenti mistico-magici millenaristi, prima l’Holy Spirit Movement (Hsm) di Alice Lakwena, i cui seguaci combattevano da temerari credendosi invulnerabili, e poi dopo la sconfitta di questi dal Lord Resistence Army (Lra) di Joseph Kony. Quest’ultima entità in poco tempo si è conquistata in eterno un posto nella galleria dell’infamia e degli orrori dell’Africa post-coloniale. Formalmente in sintonia con le dottrine esoteriche del mondo degli spiriti evocate dall’Hsm, la banda armata di Joseph Kony si è fatta conoscere soprattutto per il sequestro di decine di migliaia di bambini e ragazzi, ridotti in schiavitù, costretti a compiere crimini orrendi sotto minaccia di morte, torturati, puniti nei modi più crudeli, plagiati, trasformati in macchine di morte. Le scorrerie del Lra hanno fatto molti più danni alla popolazione del nord Uganda (regione nella quale è rimasto a lungo confinato) che alle forze governative, finendo per fare il gioco del presidente Museveni, che ha assistito impassibile all’autodistruzione delle regioni del paese dalle quali sarebbe potuta venire la sfida al suo regime.
Dentro alla tragedia di un popolo intero un posto speciale lo ha avuto la tragedia delle sue figlie, che in aggiunta agli obbrobri toccati a tutti i rapiti hanno patito anche quello di essere ridotte a schiave sessuali dei combattenti maschi. Negli anni ugandesi Kony stesso avrebbe avuto a disposizione 27 “mogli”, tutte giovani donne rapite negli attacchi delle sue forze a villaggi e città. Il numero delle concubine variava a seconda del grado dei combattenti: i comandanti disponevano degli harem più numerosi.
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Nel 2006 il Lra ha abbandonato l’Uganda settentrionale e ha trasferito le sue bande nella remota regione al confine fra Congo Kinshasa, Centrafrica e Sud Sudan. Lì con intensità ridotta continua a infliggere sofferenze alle popolazioni civili indifese. Il nord Uganda da dieci anni è tornato a respirare, ma non certo alla normalità. Decine di migliaia di persone hanno perso la vita in un ventennio di follia, quasi 2 milioni hanno vissuto da sfollati e fra i 20 e i 30 mila minorenni (ma esistono stime molto più alte) sono stati rapiti. È difficile dire quanti di loro sono morti o scomparsi e quanti sono riusciti a tornare a casa, fuggendo dalle basi del Lra. Una cosa è certa: molti di loro hanno fatto o tuttora stanno facendo una fatica tremenda a reinserirsi nelle famiglie e nella società, e le difficoltà sono maggiori per le donne che per gli uomini. Anche perché molte di esse hanno portato con sé i figli nati durante la prigionìa. Rosemary Nyirumbe sta dedicando tutta se stessa a queste reduci. La scuola professionale Santa Monica di Gulu, che era stata chiamata a dirigere dalla sua congregazione religiosa, si è trasformata in un centro modellato sulle necessità e sulle capacità delle ragazze ex sequestrate, che oggi sono la maggioranza delle iscritte. Per i loro figli è stato creato un asilo nido, dove bambini e bambine di varia età soggiornano mentre le mamme imparano a cucire e a cucinare. Un centro gemello del Santa Monica è stato creato qualche anno fa ad Atiak, un’altra cittadina dell’Uganda settentrionale, e adesso nel West Nile, regione di nascita di sister Rosemary, sta sorgendo una scuola di agricoltura domestica.
«È tornata la Lakwena!»
«Anche se le armi tacciono dal 2006, a Gulu e nel resto della regione la guerra non è mai finita», dice a Tempi suor Nyirumbe. «Siamo ancora traumatizzati, la gente sente il rumore degli spari nella sua testa quando tutto è tranquillo, io non posso sopportare i mortaretti o i fuochi artificiali, mi spavento. E le donne che sono tornate dalla prigionia non riescono ad alzare gli occhi su un uomo. Ci sono mamme la cui figlia non è tornata dalla selva che arrivano a Gulu da lontano e mi dicono: “Sister, ho sognato mia figlia, è ancora viva, deve essere qui da te”». Come tutti gli abitanti della regione, suor Rosemary ha vissuto in prima persona gli anni della guerriglia: ha avuto la casa religiosa crivellata dai proiettili, ha rischiato di essere rapita dai ribelli e di essere arrestata come spia dai governativi, ha subìto i rigori della penuria alimentare e del coprifuoco.
Il dramma delle ragazze che venivano rapite e di quelle che riuscivano a fuggire l’ha avuto sempre davanti agli occhi, anche quando non era direttrice della Santa Monica (a partire dal 2001), ma infermiera ostetrica all’ospedale missionario di Kalongo, prima assistente del famoso medico comboniano Giuseppe Ambrosoli, poi responsabile del dispensario di Moyo e del vicino orfanatrofio, poi di quello di Adjumani, infine studentessa universitaria a Gulu e a Kampala. Ma quel dramma l’ha investita quando è tornata da direttrice alla Santa Monica e ha penetrato il silenzio spesso delle sue studentesse. Hanno cominciato a raccontarle le storie più terribili: la ragazza costretta a uccidere la sorellina, la ragazza che scopre di avere ucciso i genitori di un’altra ragazza presente alla Santa Monica, quella che ha dovuto abbandonare due dei tre figli avuti da un comandante ribelle per riuscire a fuggire, e avanti con gli orrori. Per ognuna suor Rosemary ha avuto una parola e un abbraccio, ma soprattutto la capacità di generare un rapporto che ha permesso a duemila ragazze di riacquistare la fiducia in se stesse, rinascere come persone e imparare un lavoro da svolgere con passione. «Il segreto è l’amore e l’accettazione della persona così com’è, con la sua storia, con la sua sofferenza. Con queste ragazze non vale predicare Dio, bisogna essere presenti nelle loro vite e condividere con umiltà il loro dolore. Questo è l’unico segreto. Una persona che si sente giudicata da tutti, guardata con ostilità da tutti, quando trova qualcuno che la accetta e la abbraccia, quello è il momento che comincia il suo grande viaggio verso la guarigione».
Dieci anni dopo la fine della fase ugandese del Lra, le ex sequestrate sono considerate più colpevoli che vittime dal resto della società. Vista dall’Europa, la cosa può apparire incomprensibile, ma solo a causa della nostra ignoranza della cultura locale. «La gente, anche le famiglie, pensano che queste giovani donne hanno subìto il lavaggio del cervello, sono state addestrate ad uccidere e hanno vissuto immerse nel mondo degli spiriti: non ci si può più fidare di loro, potrebbero ricominciare ad uccidere in qualunque momento, e anche se non lo fanno loro gli spiriti che le infestano porteranno disgrazie alla famiglia e alla comunità. Una delle mamme che cuciono le borse da noi a Gulu era tornata dalla famiglia d’origine dopo essere fuggita da Joseph Kony: non l’hanno lasciata nemmeno entrare dentro casa. “È tornata la Lakwena!”, ha detto suo padre quando al telefono dei conoscenti gli hanno comunicato che la figlia stava arrivando». Alcune ragazze poco dopo il ritorno trovano un uomo e si accasano con lui, ma la relazione dura poco e diventa subito spiacevole: «Non sono veri matrimoni. Nella nostra cultura, per sposarsi un uomo deve andare dalla famiglia della sposa, chiedere il consenso del padre e pagare una dote. Tanti giovani ugandesi oggi non dispongono delle risorse per un vero matrimonio, e allora prendono con sé una di queste ragazze tornate dalla foresta tanto per accompagnarsi con una donna. Ma non appena si stancano, loro o i parenti cominciano a dire: “Questa ragazza non è brava, questa ragazza ha portato in casa il malocchio”, e la mandano via senza problemi, perché i genitori della donna non diranno nulla. Così quando una delle mie ragazze mi parla di una sua relazione, quasi sempre mi tocca dirle: “Attenta, sarà un matrimonio temporaneo, ti lascerà. Prima impara le abilità che ti insegniamo qui, spòsati avendo imparato a cucinare e a cucire, perché queste capacità non ti lasceranno e ti permetteranno di mantenere te stessa e i tuoi figli”».
Pratiche, non prediche
La società e le famiglie dunque restano ostili e sospettose anche a distanza di anni, ma il primo nemico le ragazze lo portano dentro di sé. «Loro per prime si colpevolizzano per quello che hanno fatto sotto costrizione. Sentono la colpa su di sé, e bisogna dedicare loro molto tempo, camminare insieme a loro, continuare a ripetergli senza stancarsi che non è stata colpa loro. Non bastano le settimane o i mesi, a volte nemmeno gli anni. E non ci si può occupare di troppe persone contemporaneamente. Perciò ringrazio sempre di far parte di una comunità di religiose, e chiedo a tutte di impegnarsi nel rapporto personale con le ragazze». Per molti anni le opere di sister Rosemary si sono precariamente autofinanziate, perché la congregazione di appartenenza, quella delle Sorelle del Sacro Cuore di Gesù, era troppo povera per dare una mano: si tratta di una congregazione sudsudanese che fa base a Juba. «Arrivarono in Uganda le loro suore fuggite da Torit a causa della guerra civile sudanese», racconta suor Rosemary. «E mentre tutte le mie compagne decidevano di entrare in un convento a Gulu, io fui la sola a decidere di entrare nell’ordine delle sudanesi, perché mi affascinava il fatto che si occupavano di orfani e rifugiati».
Inizialmente Rosemary finanzia la Santa Monica offrendo servizi di catering e facendo cucire le divise delle scuole cattoliche. Riceve aiuti da una Ong scozzese cattolica. Nel novembre 2002 alcuni americani, fra i quali Reggie Whitten che poi scriverà il libro, visitano la scuola di Gulu, e nel giro di qualche anno la storia di suor Rosemary diventa popolare negli Stati Uniti. Nel 2007 la Cnn la inserisce fra i suoi «eroi dell’anno», nel 2014 il settimanale Time la nomina fra le «100 persone più influenti al mondo». Bill Clinton la incontra negli Stati Uniti e raccomanda le sue iniziative, Forest Whitaker la conosce mentre gira L’ultimo re di Scozia in Uganda (il film dove interpreta la figura di Idi Amin) e ne resta affascinato. Diventerà la voce narrante del documentario del 2013 che racconta la sua storia. Le borse composte di linguette di latta delle lattine di bibite e birre diventano un articolo di moda ricercato in tutti gli Stati Uniti. Nel frattempo sister Rosemary non s’è montata per niente la testa: continua a fare il commesso viaggiatore vendendo in tutto il mondo le borse prodotte dalle sue ragazze, e accetta gli inviti di chi vuole conoscere un esempio di “woman empowerement” al di là di vuoti slogan. Come pure di quanti apprezzano il suo buonsenso cristiano, sintetizzato in una semplice frase: «La fede è meglio praticarla che predicarla».
di Rodolfo Casadei per Tempi.it
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