Terra Sancta et Oriens

Suor Valentina, fa l’ostetrica a Gerusalemme est. La sua testimonianza di vita per la pace

Sul numero di Febbraio di “Donne Chiesa Mondo”, il mensile de L’Osservatore Romano, la storia di una religiosa in servizio nell’unico ospedale cattolico della Città santa: competenza e rispetto, oltre i pregiudizi, trasformano il luogo della vita – a pochi metri dall’epicentro di tante tensioni – in una casa comune per palestinesi ed ebrei

di Alessandra Buzzetti* (su Vaticannews.va)

L’orologio segna la mezzanotte. Nella sala parto numero uno Melwin armeggia sul computer. Cerca la canzone preferita da fare ascoltare a sua moglie Precilla in travaglio da più di un giorno.  Aspettano il primo figlio, sono cristiani indiani, emigrati per lavorare a Tel Aviv, non hanno molta disponibilità economica, ma sono stati accolti ugualmente nel Reparto maternità dell’Ospedale Saint Joseph, l’unico cattolico di Gerusalemme, personale arabo, e per questo considerato ospedale palestinese. Suor Valentina è accanto a Carol da più di tre ore.  Prova diverse tecniche ed esercizi per aiutarla ad avere un parto naturale.  Di tanto in tanto fa capolino la dottoressa in turno, velata, che non nasconde il suo scetticismo. È notte fonda, quando suor Valentina si arrende. Accompagna Precilla in sala operatoria per procedere con il cesareo.  Il padre aspetta fuori.  Ci vuole un’altra mezz’ora prima di poter, finalmente, vedere il suo piccolo Eitan.

Appena il tempo di una carezza e suor Valentina riprende in braccio il neonato. Percorre velocemente i corridoi avvolti dal silenzio e depone il suo fagottino con un cappellino di lana colorato nella culla pronta per il nuovo arrivato. Sono quasi le quattro di mattina, ma suor Valentina non tradisce segni di stanchezza. I suoi occhi chiari brillano nella penombra davanti alla fila di neonati sonnecchianti. Sui lettini tanti nomi arabi e qualche nome ebraico. È un fatto sorprendente in un ospedale palestinese nel cuore di Sheik Jarrah, il quartiere di Gerusalemme est divenuto simbolo del conflitto con Gaza del maggio scorso. A generare un miracolo quotidiano di convivenza e conoscenza reciproca nel Reparto maternità del Saint Joseph Hospital è stata la tenacia femminile, sotto la guida paziente di una donna dalla doppia vocazione, di ostetrica e di religiosa.

Valentina Sala, lombarda, 45 anni, era felicemente fidanzata, quando si è ritirata per concludere la tesi in ostetricia in una casa per ferie di suore dal nome strano. Congregazione di san Giuseppe dell’Apparizione. Ma è qui che le accade qualcosa di mai sperimentato in precedenza: nella preghiera e nel volto delle suore percepisce la forza e la concretezza di una Presenza accanto a sè, che la chiama. L’istante di corrispondenza totale è seguito dalla paura. Il travaglio è doloroso, brucia il desiderio di una vita feconda, di non sbagliare il proprio posto. Con la resa, arriva la pace nel cuore. Suor Valentina è pronta, come san Giuseppe, a seguire i sogni di Dio.

Si butta nella pastorale giovanile in Italia fino al 2013, quando la Congregazione le chiede di partire per Gerusalemme, dove bisogna mettere in piedi il Reparto Maternità dell’Ospedale Saint Joseph di proprietà delle suore. Viene presentata come ostetrica, quale è, al personale interamente arabo. Nessuno immagina, però, che le manchi del tutto l’esperienza in reparto. È anche la sua prima esperienza di comunità a servizio di una Istituzione. La casa delle suore – di cui Valentina è l’unica italiana – è all’interno dell’ospedale.  Senza sapere né l’inglese né l’arabo, entra nel nuovo mondo in punta di piedi. Non riesce a comunicare, ma può guardare. Suor Valentina gira le sale parto, anche di altri ospedali israeliani. Si accorge di una certa violenza nella gestione dell’assistenza ostetrica, della predominanza del personale medico che rende passiva la donna durante il parto. L’estate del 2014 segna una prima svolta. Nei due mesi di guerra con Gaza, suor Valentina sperimenta anche la violenza del conflitto. Intuisce che il suo contributo a una terra martoriata è quello di rimuovere la violenza almeno nel momento della nascita.

Gerusalemme – Foto di max_gloin da Pixabay

L’impresa è ardua, perché si tratta di cambiare una modalità di assistenza, radicata nel sistema culturale e sociale. A resistere non è solo il personale infermieristico, ma le donne stesse. In particolare le arabe, che arrivano in sala parto con le madri. È inconcepibile per loro considerare la puerpera parte attiva nella nascita del bambino, tanto da poter condividere le scelte delle ostetriche e dei medici che usano un po’ troppo spesso ventose e tagli cesarei. Suor Valentina quasi non ci crede quando vede una giovane partoriente musulmana zittire la madre per poter partorire carponi, in modo libero e naturale, senza altre costrizioni.

Una delle ostetriche del team ha l’idea che avrebbe reso famoso l’ospedale in tutto il Paese.  È incinta e vuole partorire in acqua. Nessuno usa ancora questa tecnica a Gerusalemme.  Suor Valentina si trova ad esserne pioniera, suo malgrado. L’ingegnere dell’ospedale, che aveva procurato la piscina usata fino a quel momento solo per il travaglio, chiede che sua moglie possa partorire in acqua il terzo figlio. Per suor Valentina è la prima esperienza di assistenza in acqua.  Arrivano le prime telefonate di coppie ebree, anche osservanti, che chiedono di partorire all’Ospedale Saint Joseph.  Non era mai successo in Israele che dei bambini ebrei venissero al mondo in un ospedale considerato palestinese. Un primo contatto ravvicinato non solo per gli ebrei, ma anche per il personale arabo. Le ostetriche hanno paura all’inizio ad occuparsi di ebree ortodosse, parlano un’altra lingua e hanno a volte esigenze particolari. Barriere aumentate dalle umiliazioni quotidiane di lavoratrici che passano i checkpoint israeliani.

L’ospedale si trova a poche centinaia di metri dalla Spianata delle Moschee, teatro dei sanguinosi scontri che nel maggio scorso scatenarono la guerra con Gaza.  Suor Valentina rimane scioccata quando vede arrivare, insieme alle barelle dei feriti palestinesi, anche alcune coppie ebree per partorire. Teme che le sue ostetriche non reggano la tensione. La risposta le arriva con una telefonata nei giorni successivi: una giovane ebrea che ha appena partorito la ringrazia per essersi sentita accolta, senza alcuna discriminazione.  Suor Valentina pensa che se neppure la guerra ha rotto la fiducia significa che davvero nel suo ospedale è successo qualcosa di significativo per Gerusalemme, città in perenne travaglio. Dio aveva realizzato il suo sogno.

 

*Corrispondente per il Medioriente per Tv2000  e RadioinBlu

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