Ieri i tassisti di Roma avevano un nastro rosa sulle antenne ma non era nato un bambino. Era morta una donna che è rimasta viva. Perché per una donna ci sono tanti modi di morire rimanendo vivi e lo stupro è uno di questi. Trent’anni anni lui – Simone Borgese reo confesso – quarantatre lei. La collettività è intervenuta subito. La solidarietà, con un fiocco rosa sulle antenne, si è fatta visibile. La donna è stata coraggiosa. Coraggiosissima, aggiungo io. La sua descrizione dettagliata ha reso possibile un veloce riconoscimento. Le indagini sono state tempestive. La prigione si è già aperta per il trentenne reo confesso. Tutto è stato fatto e fatto bene. Ma ora la giustizia per fare il suo corso ha bisogno di parole adatte e, per favore, niente raptus, nessuna scappatoia psicologica. Questa donna coraggiosa che ha denunciato ha bisogno che ci sia giustizia per rimarginare le ferite che in ospedale non possono curare. Leggo su un importante quotidiano nazionale: “Ciò che ha colpito gli inquirenti è l’apparente mitezza con cui l’uomo ieri ha raccontato, in modo particolareggiato, cosa avvenuto in una strada sterrata nella zona di Ponte Galeria la mattina dell’8 maggio. Una calma e una lucidità che in passato hanno però lasciato spazio ad altri “raptus””. Alt, ferma. Per fare giustizia ci vogliono le parole esatte, lucide, ordinate. Mitezza? Raptus? Non è mite chi racconta in modo particolareggiato come ha portato in una strada isolata e sterrata una donna con un cambio di tragitto che era premeditato perché conosceva il luogo e sapeva come fosse nascosto alla vista. Non è mite uno che minaccia una donna intenta a guardare la tariffa, che salta sui sedili, ne abbatte uno, la afferra per i capelli e le dice di fare quello che voleva lui perché così non si sarebbe fatta male. Non è un raptus se, una volta violentata, gli spacchi il naso con un cazzotto e le rubi novanta euro di incasso prima di andartene. Non sei mite se racconti che lei piangeva quando le sei saltata addosso e l’hai lasciata stesa e sotto shock. Per violentare una donna devi portarla in un posto a cui hai pensato, bloccarla con violenza, toglierti i pantaloni mentre la tieni bloccata e strapparle i vestiti di dosso e massacrarla fuori e dentro, sulla carne e dentro l’anima. No. Nessuna mitezza postuma. No. Nessun raptus. Anche se il suo avvocato scriverà così, anche se Borgese lo chiama così. Anche se un perito del tribunale dirà che psicologicamente si può parlare di raptus. Il violentatore non ha tirato una pallonata contro un vetro. Lei lavorava, lui era un cliente. Lei lo portava a destinazione, lui chiedeva all’ultimo di girare in una stradina. Lei si fermava e preparava il conto, lui saltava sul sedile accanto a lei. Lei piangeva. Lui la prendeva per i capelli per bloccarla. E il resto è cronaca. È storia già vista. Ma nessuno di noi vuole vedere la storia già vista di una giustizia che non fa giustizia. Vendetta no. Però giustizia sì. Giustizia sia. Borgese ha confessato. Sembra mite e lucido. Dice di non averlo mai fatto, che è stato un raptus. Va bene: se è la prima volta non è meno grave. Scusate la semi descrizione di prima ma quell’uomo l’altro giorno non era mite e i raptus lasciamoli ai matti. Non ha rotto un vetro e i mille cocci di una vita stuprata sono così taglienti che ti fai male anche quando li rimetti insieme, basta sfiorarli per tagliarsi. Vogliamo tutti che quella donna ce la faccia, però non vogliamo che il fiocco rosa sulle antenne dei tassisti romani voglia solo dire “siamo con te”. Quella donna – e le mille donne cui potrebbe accadere lo stesso – ha bisogno della giustizia. E per la giustizia ci vogliono i nomi giusti delle cose.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da Ilsussidiario.net