In ogni chiesa del mondo oggi, in serata, tutta la comunità si riunirà e canterà il Te Deum, l’inno di ringraziamento per eccellenza. È un atto liturgico che si farà a prescindere. Non importa se ci sia stato lo tsunami, un figlio morto di cancro, la guerra civile, o il tasso di disoccupazione che ha raggiunto la doppia cifra. Non si fa se è andato bene il raccolto e altrimenti no. La chiesa ci insegna che si ringrazia di tutto. Si ringrazia per tutto e per tutti. Ce lo ha insegnato la mamma, da piccoli, a dire grazie. Grazie alla zia perché ci ha dato una caramella. Un grazie facile. Tu mi dai la caramella. La caramella è buona. Io dico grazie. Poi cresciamo un po’ e la mamma ci insegna di nuovo a dire grazie alla zia anche se il regalo della zia proprio non ci piace. Sono dei grazie più difficili da dire. Oggi la chiesa, che è madre, ci insegna questo grazie, un grazie che può essere difficile da dire. Ci aspetta alla fine di un anno denso, intenso. Riuscirò a dirlo di cuore, mi sono chiesto? E forse ho trovato la scorciatoia quando ho scoperto che il Te Deum – preghiera antichissima – sembra sia stato composto a due mani da Ambrogio ed Agostino il giorno di battesimo di quest’ultimo, avvenuto a Milano nel 386. Per questo, pare, è stato chiamato anche “inno ambrosiano”. Ora, studi più approfonditi, scarterebbero quest’ipotesi, ma io mi sono documentato e persone esperte mi hanno spiegato che nessuno potrà mai dire l’ultima parola. E quindi, allora e invece, io me la tengo bella incartata quest’ipotesi, la faccio vera, lungi da me l’idea di scartarla. Perché la strada giusta, nella Chiesa, è sempre quella della comunione, della relazione. È bello pensare che un inno che loda Dio, il Verbo incarnato, lo Spirito Santo, gli angeli, i santi e a tutta la Chiesa – che poi siamo noi e le nostre vite -, sia diventato un inno così perché fatto a quattro mani. Non solo perché sono le mani di due santi ma perché sono le mani di due amici. Che si sono conosciuti quando Agostino veniva da una vita affaticata e pesante e pensosa e Ambrogio era già Ambrogio. Perché di tutte le cose che si possono fare anche da soli, ce n’è una che ha bisogno di qualcuno accanto, ed è il ringraziamento, la gioia. E questo me lo insegna non l’erudizione ma Maria in persona che esplode nell’inno di ringraziamento per eccellenza di tutto il vangelo – il Magnificat – non dopo l’Annunciazione ma dopo la Visitazione. Il motivo della gioia è l’Annunciazione – cioè l’Incarnazione – ma l’esultanza è possibile solo assieme alla cugina. Per dire “sì” a tutto – il fiat – si può anche essere soli (a volte, anzi, bisogna essere soli) ma per un canto di ringraziamento, ci vuole un altro. Ci vogliono almeno due paia di braccia e di mani e di bocche. Maria, per erompere nel Magnificat, ha bisogno dell’incontro con Elisabetta. Per fare di un anno che non è stato tutto bello un’occasione di gratitudine, ci vuole una comunità, una famiglia, o almeno due amici. Così posso guardare all’anno nuovo con realismo. Senza sperare che vada tutto bene e tutto meglio, ma d’imparare ad essere di più con un amico.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da ilsussidiario.net