“Mettere fine all’incitamento e alla violenza” in Medio Oriente. Questa la richiesta del Segretario di Stato Usa John Kerry, a Berlino, dove ha incontrato il premier israeliano Netanyahu.
Il capo della diplomazia statunitense ha aggiunto di aver parlato con il Presidente palestinese Mahmoud Abbas e con il re Abdullah di Giordania, che vedrà sabato prossimo: entrambi, ha riferito, hanno assicurato il loro impegno alla calma. Netanyahu ha però accusato Hamas per gli attacchi contro Israele e il Presidente Abbas di “menzogne”. La crisi in Medio Oriente è al centro degli incontri, sempre nella capitale tedesca, dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea, Federica Mogherini, e in Giordania del Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. Sul terreno però non si fermano le violenze: è morto uno dei due palestinesi che a Beit Shemesh, presso Gerusalemme, hanno ferito a pugnalate un ebreo religioso all’ingresso di una sinagoga prima di essere colpiti dalla polizia. Un altro palestinese ha tentato di pugnalare un soldato israeliano ad Hebron, in Cisgiordania. Il leader di Hamas, Khaled Mashaal, ha intanto minacciato: “l’Intifada di Gerusalemme” non si fermerà. Sulla situazione, ascoltiamo padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, intervistato da Giada Aquilino :
R. – Ultimamente c’è stato un deterioramento soprattutto legato alla questione della Moschea di Gerusalemme, Al-Aqsa, e ha dato a questa ondata di violenza un aspetto religioso prevalente rispetto a quello politico.
D. – Nelle ultime ore c’è stata una risoluzione dell’Unesco che critica la gestione israeliana della Spianata delle Moschee. Israele ha parlato di decisione “vergognosa”. Perché?
R. – C’è sulla Spianata delle Moschee, o luogo dell’Antico Tempio, una disputa antica da parte di ebrei e musulmani. E’ un luogo santo per entrambi, importantissimo e irrinunciabile. Tutti sappiamo che quando si tocca un luogo così sensibile, profondamente radicato nelle due fedi, ogni forma di prudenza, ogni forma di ragionevolezza viene un po’ meno.
D. – Cosa è auspicabile allora al riguardo?
R. – Che le autorità religiose richiamino i propri fedeli a una calma e che lo ‘status quo’ del luogo venga preservato, con dichiarazioni in tal senso da parte di tutti, ebrei e musulmani. Altrimenti diventerà sempre più difficile gestire questa materia.
D. – Per quanto riguarda le iniziative diplomatiche sulla crisi israelo-palestinese, il Segretario di Stato americano Kerry ha incontrato il premier israeliano Netanyahu, a Berlino. Ha chiesto la fine di tutte le violenze tra israeliani e palestinesi. Quanto possono servire secondo lei tali sforzi?
R. – Possono certamente aiutare anche se, appunto, la tensione in questo momento ha un’accentuazione religiosa più che politica. E i politici possono certamente influire, hanno un ruolo, ma sono soprattutto i religiosi che in questo momento dovrebbero parlare. Gli animi qui sono troppo accesi, bisogna semplicemente calmare la situazione.
D. – Quali sono gli sforzi della comunità cristiana locale?
R. – La comunità cristiana è piccola, come si sa: oltre che a pregare, invita tutte le persone, attraverso tutti i canali possibili, a una maggior calma e al rispetto dei luoghi santi di tutte le fedi a Gerusalemme.
D. – Padre, nonostante le tensioni in atto, ci sono poi notizie di ebrei e arabi che lavorano da decenni insieme, di coabitazione in alcune zone delle colonie in Cisgiordania. Si può ripartire anche da questi esempi per una pacificazione dell’area?
R. – Certamente, questi esempi ci sono sempre stati e la maggioranza della popolazione si rispetta. Le persone semplici, coloro che vivono la vita ordinaria nella strada, nel territorio, hanno sempre avuto una collaborazione che molto spesso è sconosciuta ai più. E da lì si dovrà ripartire perché tutti resteremo qui e tutti dovremo ricominciare a riannodare le relazioni, che si sono rotte, là dove le abbiamo lasciate.
D. – Ci può fare qualche esempio, anche grazie all’esperienza ‘sul campo’ della comunità cristiana?
R. – Un esempio classico è quello delle scuole dove cristiani e musulmani studiano insieme. Poi ci sono tante associazioni, tanti movimenti e circoli, dove israeliani e palestinesi lavorano insieme a Jaffa, a Tel Aviv o al Jerusalem intercultural center di Gerusalemme; ci sono tantissime altre associazioni di carattere laico, non solo religioso, dove si fanno le cose apparentemente le più semplici e banali: andare a giocare insieme, creare progetti comuni di lavoro o semplicemente stare insieme o anche discutere, ma parlandosi.
D. – Vuole fare un appello ai religiosi del Medio Oriente affinché si trovi la via della riconciliazione?
R. – Sempre diciamo che ogni religione è una religione di pace. Noi religiosi dovremmo, con i nostri discorsi, con la nostra formazione, non soltanto dire queste cose ma anche trasformarle in realtà concreta. Purtroppo vediamo che non è così. Il mio appello, la mia preghiera è che tutti noi testimoni religiosi possiamo diventare veramente costruttori di un modo diverso di vivere la propria fede in Dio, che è Padre di tutti e ci ama tutti allo stesso modo. Finora le immagini che vediamo sono le immagini di macerie, ma abbiamo bisogno anche di vedere leader religiosi locali e autorevoli, che hanno influenza sul territorio, che si incontrano, si parlano e mostrano a tutti che – pur rimanendo diversi, magari anche senza avere le stesse opinioni su questioni specifiche, senza essere d’accordo su tutto – è possibile rispettarsi.
Redazione Papaboys (Fonte it.radiovaticana.va)
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